Natale a Firenze

La pioggia aveva ricamato di perline i vetri delle alte finestre. Fuori, in Via Ghibellina, il vento faceva dondolare le luminarie sospese fra le case. Il traffico delle auto era caotico. I passanti, tenendosi stretti agli ombrelli, correvano rasente ai muri, le borse piene di spese natalizie.
Il regalo per Andrea era sul comò della camera, un bell’orologio che Marisa si era portata da Genova. Ma Andrea non sarebbe venuto a prendere il regalo, né avrebbero passato le vacanze di Natale insieme, come previsto. Avevano litigato subito, nella stazione di Santa Maria Novella, dove Marisa aveva aspettato per quasi un’ora che lui venisse a prenderla. Come aveva potuto dimenticare l’orario del suo treno!
L’appartamento dei fiorentini che ospitavano Marisa era antico, con affreschi del settecento sui soffitti, e caminetti in ogni stanza. Anche le porte di legno delle stanze erano antiche, dipinte a mano. Quella della sua camera aveva la maniglia che non chiudeva più, e Marisa si chiedeva come avrebbe fatto a tener calda la stanza con la porta socchiusa. Non c’erano termosifoni. I soffitti erano così alti da rendere proibitivo il costo di un impianto di riscaldamento. I mattoni rossi del pavimento erano sconnessi e la casa era un susseguirsi di stanze e corridoi che Marisa non aveva ancora visitato.
La giovane coppia che la ospitava aveva acceso il caminetto della sua camera ed era uscita a fare spese per la cena. Avevano lasciato in casa solo il cane, un enorme pastore maremmano che, all’arrivo di Marisa, aveva abbaiato come Cerbero. Ora lei non osava uscire dalla sua stanza, anche se aveva urgenza di trovare il bagno. Pregava che i suoi ospiti tornassero presto, e intanto piangeva davanti al camino acceso.
Aveva conosciuto Andrea quell’estate su una spiaggetta sassosa delle Cinque Terre, dove andava per due settimane all’anno coi suoi genitori. Andrea era studente di Architettura, alto, biondo, terribilmente distratto. Non indossava mai orologi, “tanto li perdo tutti”. Si erano conosciuti al bar della spiaggia, poi lui le aveva scritto ed era andato in autostop fino a Genova a trovarla.
Per venire una settimana a Firenze, Marisa aveva dovuto architettare un piano con la sua amica di Lettere. Avrebbero detto ai genitori che andavano insieme a Firenze, ospiti di un’amica comune di facoltà, e invece ognuna sarebbe andata da sola col proprio ragazzo. Marisa non conosceva gli amici di Andrea che ora la ospitavano. Che cosa avrebbe fatto per Natale? Sola, ospite di estranei. Tanto valeva tornarsene a casa. Andrea non era solo distratto, era anche crudele. Inalberarsi così, per il primo rimprovero! L’aveva accompagnata in autobus fino a casa degli amici, e poi se n’era andato senza dire una parola!
Seduta accanto al fuoco, pianse in silenzio, per paura che Cerbero la sentisse dall’atrio, dov’era stravaccato davanti al portone d’ingresso, a sbadigliare coi denti lunghi e aguzzi e la lingua ciondoloni nel mezzo. Ricordò il primo bacio di Andrea, al tramonto, sulla “via dell’Amore”, verso Manarola, e le fughe fra i viottoli e i sassi del paese. Grosse lacrime calde rigavano le guance paffute. Sentì una corrente d’aria fredda arrivarle alle spalle dalla porta, uno strano ansimare, poi tutto accadde troppo in fretta per poter gridare.
Il muso del cane le si avvicinò da dietro e con la grossa lingua le leccò via le lacrime. Marisa si voltò spaventata, e vide il cane tornare nell’atrio come se nulla fosse. Stordita, si toccò la guancia. Il cane l’aveva leccata con grazia, con la lingua asciutta, e Marisa non riuscì più a piangere.
Il pensiero del cane le riempì la mente, facendole sembrare un bisticcio infantile il diverbio con Andrea. I suoi amici lo avrebbero richiamato in serata, per la cena, e tutto si sarebbe appianato.
Mentre il fuoco scaldava la stanza antica, Marisa si chiese se Dio le avesse mandato un angelo in forma di cane. Con gli occhi persi sulla fiamma scoppiettante, ritenne più plausibile che il cane avesse un’anima. Uno spirito più attento di quello di Andrea, se non altro.

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