Guardo l’angolo del salone dove di solito in questo periodo troneggia l’albero di Natale. Ora invece c’è una sedia con tanti panni da stirare perché quest’anno non l’ho fatto. Il giorno in cui per tradizione lo si deve preparare, l’8 dicembre, tu e io abbiamo litigato, ma proprio di brutto, altro che fare l’albero insieme… di insieme non c’è rimasto nulla, nemmeno i ricordi: distrutti anche quelli, frantumati, sbriciolati dalla sequenza di parole che abbiamo sparato l’uno contro l’altra, come pallottole. À la guerre comme à la guerre, si dice così e noi la guerra ce la siamo fatta e non abbiamo lasciato prigionieri, son morti tutti, ricordi compresi. Continuo a fissare quello spazio, penso all’icona natalizia che non c’è; la sua assenza mi ferisce, come se il puntale mi si fosse conficcato nel petto.
Ho distrutto il tuo presepe familiare, così mi hai detto, guardandomi con quell’odio la cui luce abbaglia e acceca come solo il rancore che nasce da un amore ferito può accecare. Il tuo presepe familiare… continuo a pensarci e a non comprendere. No, io non capisco come si possa provare affetto per un presepe – sia pure familiare – e non avere il cuore per sentire la sofferenza di chi ti ha amato e sta male, anche proprio fisicamente male.
Quasi un mese insieme, a ritrovarci, a parlarci come un tempo … “con te ci sto davvero bene, era tanto che non passavo più serate così”- mi dicevi tu- e quella frase la pronunciavi solo qualche settimana prima di quel fatidico giorno in cui io ti ho detto che non ero in forma, che dovevo affrontare la prova più dura di tutte, quella della malattia.
“Sì, ci stai bene con me me, ma mi ami ancora o no?” domandavo.
“Non lo so, ti sto riannusando” rispondevi (come se io fossi una boccetta di profumo, pensavo tra me e me, ma poi tacevo e mi accontentavo… cretina che ero).
Il profumo è evaporato tutto dopo la mia visita, buffa la vita, no?
D’un colpo ti sei ricordato che io avevo distrutto il tuo presepe familiare. Ma di che parlavi?
Quando un uomo e una donna si sono amati, il presepe sono loro, non la sequenza dei parenti: mamma, zie, zii, cugini, nipoti, amici del paesello… no, sono loro due, punto. È quello il “presepe”, perché lo spirito del Natale è la tradizione che continua e si perpetua nella vita che va avanti di generazione in generazione; è la linfa vitale che rispetta il passato ma guarda al futuro. Per te però non è così, per te la vita non continua ma stagna nella natività della generazione precedente alla tua.
Oltretutto la capanna con bue e asinello e tutto il resto io non l’ho mai nemmeno amata, parte della mia famiglia ha origini mitteleuropee e lì la tradizione privilegia l’albero, l’abete tutto addobbato di luci, quello che quest’anno nel mio salone non c’è perché non ha senso ci sia, non per me.
Io ho distrutto il tuo presepe, tu il mio albero, che pensavo fosse il nostro.
Intanto continuo a guardare l’angolo buio e mi accorgo che questo è un Natale a perdere, di quelli senza la resa; ci avevo messo il cuore ma era a perdere anche quello.
Sotto l’albero che non c’è ho adagiato ciò che mi lascio alle spalle: giorni pieni e giorni vuoti; quelli pieni non necessariamente sono i migliori perché possono essere colmi di me e di te che sono diventati voi e non più noi. In questo “voi” il tuo presepe però è salvo, pronto ad accogliere qualcun’altra, e va bene così.