Nell’estate del 1969 tre ragazzi, tre amici di Budapest emigrarono clandestinamente in Occidente: il ventunenne Nikita, protagonista di questo racconto, il diciannovenne Pierre, il narratore, e il diciottenne Gyugyó. Erano noti con i loro soprannomi, come si usava all’epoca in Ungheria, Il Natale del 1969 li colse a Roma. Fecero ritorno a casa, a Budapest, anni dopo. Pierre Vajda, l’autore del racconto, è regista cinematografico, scrittore e critico gastronomico con una propria rubrica su Index, il più grande portale informativo ungherese, dove questa novella è stata pubblicata il giorno di Santo Stefano 2023.
Gli spaghetti delle anime morte mi tormentano ancora
Quando Nikita saltò dentro l’appartamento seminterrato attraverso la finestra aperta, non mangiavamo già da due giorni, o forse da uno solo, in ogni caso avevamo la sensazione di patire la fame da settimane. Il litro di vino scadente da cento lire ci faceva dimenticare la fame per un’ora o due, ma appena svaniva l’ebbrezza a buon mercato riprendevamo a soffrire la fame e la sete con le labbra screpolate. Mi mordevo le labbra ma sulla lingua arrivavano soltanto piccoli brandelli di pelle pungente che ingoiavo invano fingendo che fossero bocconcini solidi, senza poter ingannare il mio stomaco o i miei sensi.
Stavamo nel rione collinoso dell’Esquilino, costruito su uno dei sette colli di Roma ma su quale per la precisione non ci interessava affatto, e tiravamo avanti. Quando potevamo permetterci un tenore di vita migliore perché sia i cattolici che gli ebrei ci pagavano ciò che spettava ai profughi, ci dedicavamo alla devozione dagli uni e dagli altri.
– Saremmo potuti andare in Canada, sostenuti dai cattolici
– Saremmo potuti andare in Israele, perché ci avrebbero sostenuto gli ebrei
Né gli uni né gli altri erano insistenti, tuttavia dopo un po’ scoprirono che prendevamo il sussidio da ambo le parti e si resero conto anche del nostro rifiuto di togliere le tende da Roma.
Lo spirito di Gogol’
Motivati da sincero interessamento e predisposizione alla cultura nonché a pancia piena – così è facile -, un giorno facemmo una passeggiata per raggiungere Villa Wolkonskij che era poco distante dal nostro alloggio. La villa era stata la residenza di Zinaida, moglie del principe Nikita Grigor’evič Wolkonskij, aiutante di campo dello zar Alessanrdo I. Forse ci andammo anche perché uno di noi si chiamava Nikita di soprannome: i suoi capelli di un biondo molto chiaro e le lunghe basette ricordavano un principe slavo, e il nostro Nikita pensava che la visita lo avrebbe aiutato a immedesimarsi meglio nel ruolo a lui designato. Glielo si leggeva in faccia che si trasformò persino in trasfigurata quando venne a sapere che Gogol’ aveva scritto qualche capitolo del suo romanzo “Le anime morte” in quell’edificio. Ripeteva autenticamente commosso che vi avvertiva davvero lo spirito di Gogol’ e lo ribatteva con una tale forza che girovagando fra le quinte di quella splendida estraneità, di colpo tutti e tre sentimmo le anime morte, e ci sopraffece la velata vacuità dell’esistenza del profugo. Nikita saltò nell’appartamento seminterrato attraverso la finestra aperta qualche giorno prima di Natale. Forse spaventato, così ce lo avrebbe spiegato in seguito, dall’alto volume della radio che stava trasmettendo l’ultima partita dell’anno, mentre la voce del cronista si fondeva con il rintocco basso delle campane della vicina Basilica di Santa Maria Maggiore, producendo un frastuono che penetrava nella gola e copriva tutto. Saltò dentro come se fosse stato sospinto dalle anime morte e afferrò la radio che stava trasmettendo a tutto volume. Gli abitanti dell’appartamento, una famiglia numerosa con bambini strepitanti e uomini in maglietta, stavano andando a pranzo. Sbigottiti alla vista del principe biondo, il che non sarebbe stato ancora nulla, assistettero anche all’interruzione della voce che stava trasmettendo la partita, quando Nikita strappò via il filo della radio dalla presa e stringendo il grosso apparecchio con entrambe le braccia al petto tentò la fuga dalla finestra.
Il rintocco delle campane legò mani e piedi
In quell’attimo varcò la finestra aperta un rintocco che sovrastò indisturbato tutto e, ancora secondo il racconto di Nikita, lui ne avvertì le onde che lo rispinsero con la radio abbracciata dentro il seminterrato. Tuttavia anche gli inquilini, l’intera famiglia pronta a saltargli addosso, fu fermata dai rintocchi cavernosi di Santa Maria Maggiore. Quando giungemmo noi due la situazione era già di stallo. Il suono delle campane ci avvolgeva con il suo scialle di velluto spesso e ci legava mani e piedi. L’arrivo dalla cucina del capofamiglia, una donna corpulenta, soffocò in gola le urla che la famiglia stava per lanciare alla vista di Nikita abbracciato alla radio. La donna fece un chiaro segno d’invito rivolto a noi che pur pietrificati, cercavamo un modo per salvare il nostro compagno caduto in trappola. Poi una nuova ondata di rintocchi trascinò dentro anche noi. Passato lo stordimento, ci trovammo seduti al tavolo della famiglia che occupava quasi tutto il vano, e davanti a tutti fumava un piatto di spaghetti alla Nerano. Che profumi, formaggi fusi, provolone e parmigiano, con rondelle di zucchine fritte insaporite con l’aglio in un’emulsione cremosa e saporita con i fili di pasta che si ottiene girando energicamente l’olio, i formaggi e l’acqua di cottura versata per tempo.
Sentivo le mie labbra screpolate tornare morbide, la pastasciutta più semplice del mondo accarezzare la bocca come fosse un medicamento. La donna corpulenta unì le mani in preghiera e sfiorò con lo sguardo gli astanti seduti. Ormai si sentiva solo un flebile mormorio misto ai rintocchi. Mancavano due giorni al Natale.
Pierre Vajda è l’autore del testo – La traduzione dall’ungherese è di Andrea Rényi
bello e ben tradotto!
Non molto verosimile. In maglietta a dicembre? Nessuna protesta per l’interruzione? La ricetta della pasta di N’erano è sbagliata e a dicembre non ci sono zucchine. Insomma molta fantasia.