Woody è un anziano signore, ex alcolista, convinto di aver vinto un milione di dollari alla lotteria. Né moglie né figli hanno mai preso sul serio la vincita, una truffa bella e buona a loro avviso, per allocchi. Ma Woody è testardo e decide di intraprendere il lungo viaggio dal Montana al Nebraska per intascare il malloppo che gli cambierà la vita e, soprattutto, la cambierà ai suoi figli. Pensa di andarci a piedi, visto che a un vecchio confuso e traballante come lui hanno tolto la patente da un pezzo. Fermato dalla polizia, viene recuperato dal figlio minore, David, che dopo aver cercato di dissuaderlo in ogni modo, decide di accompagnarlo in macchina. Un viaggio lunghissimo che attraversa un’America in bianco e nero, con strade dritte e sconfinate, deserte. Le case tutte uguali, la pompa di benzina, il drugstore, il bar con quattro anime che bevono birra dalla bottiglia. Tra Springsteen, Hopper e Kerouac, paesaggi rarefatti e solitudini extra urbane, un racconto on the road che ha il fascino ruvido di una canzone folk. Padre e figlio recuperano un rapporto mai avuto, incrinato da anni di silenzi e incomprensioni. Torneranno entrambi a casa più ricchi, di quelle cose che davvero contano nella vita. Alexander Paine, definito l’ultimo neorealista del cinema americano, gira un film politicamente scorretto, lontano da Hollywood e dai suoi stereotipi. La fotografia in bianco e nero si ferma spietata sulle rughe del vecchio Woody, uno strepitoso Bruce Dern (migliore attore al festival di Cannes), mentre sfuma in un grigio quasi uniforme case, ambienti e personaggi. Nebraska (Usa 2013). Un film che continua a macinarti dentro, denso e potente, oltre i titoli di coda.