Nella scatola

«Ormai, che te ne fai?» le aveva chiesto sua madre con aria di sufficienza.
Niente. È un ricordo, è mio. Aveva pensato, senza risponderle.
Lo aveva cercato per così tanto tempo… Voleva rivederlo, toccarlo, rendersi conto di quanto era stata piccola, di come aveva sognato, di cosa aveva immaginato.
Non lo aveva mai trovato, fino al giorno di quel trasloco, quando trovò una scatola. Sembrava una di quelle recapitate a casa delle dive nei film americani del secondo dopoguerra: rettangolare, bassa, chiusa da un nastro. L’aprì subito; sopra un telo bianco di cotone leggero, con un orlo ricamato, c’era un biglietto, calligrafia della nonna che lo aveva ideato e cucito: «vestito di Eleonora, carnevale».
Quasi stordita dall’odore della naftalina, tanto penetrante da farle socchiudere gli occhi, sollevò il telo bianco e toccò il passato con le dita. Ci si cullò, con tenerezza.

Eleonora solleva un lembo della gonna di taffetà rosa cipria, ricoperta di tulle leggerissimo e pallido per lasciarlo ricadere lento e poi, presa dall’orlo, la fa scivolare dalla gruccia in un fruscio di tessuti, avvolgenti come un’onda. Accarezza il corpetto di raso, le perline cucite ai vertici dei rombi disegnati dalle impunture, le stesse del cerchietto a coroncina e della borsetta a sacchetto, le stesse che tintinnano come campanelli stonati quando le piccole mani abbassano la cerniera lampo per allargare la vita.
Un piede, poi l’altro, poi tende le braccia in avanti per infilare le maniche, strette alla spalla, ampie al polso: si osserva allo specchio interno dell’anta dell’armadio rimasta aperta, sistema l’abito in vita, allarga la gonna, aggiusta il pizzo sul bordo del collo, piega il capo di lato. A piedi nudi, con il pigiama a far da sottoveste, si rimira felice nel suo abito rosa: le va a pennello.
E vorrebbe poter uscire così, leggera e leggiadra, invece di sentirsi un salame, imbottita di maglie, magline, maglioni per non prendere freddo. Mai che a carnevale ci sia una giornata tiepida.
Si addormenta ai piedi del letto, rivolta verso la finestra con la tapparella alzata in modo che le luci della strada si intravedano senza la percezione dell’altezza, il settimo piano di un palazzo a Milano. Il suo papà la trova con le braccia incrociate e il capo poggiato sulle maniche larghe del vestito da carnevale; glielo toglie, la infila sotto le coperte. Teme di svegliarla con il cigolio dell’armadio, perciò sistema l’abito sullo schienale della poltroncina.
La mattina seguente, gli alunni affollano il grande marciapiede davanti alla scuola: tutte le ferree regole sono meno rigide nei giorni allegri del carnevale, persino quella di camminare sulla greca che le piastrelle disegnano lungo i corridoi. La minuscola, inflessibile direttrice gironzola sui tacchetti a spillo. Sul suo viso, il trucco marcato sembra meno appariscente. Lo sguardo severo controlla i bambini. Li osserva, occhi negli occhi, perché i più grandi sono alti quanto lei, ma sorvola quasi su tutto e sorride.
La maestra di Stefano ha organizzato la mattinata in base alla regola del “prima il dovere, poi il piacere”: due ore di lezione, merenda e giochi fino all’uscita.
All’intervallo arriva Eleonora; le è consentito passare dalla sezione femminile a quella maschile perché è figlia della maestra. Tutti le si affollano attorno. Quanto le piace essere al centro dell’attenzione, ma non si dà importanza per questo. È pronta al sorriso, tuttavia si arrabbia facilmente con chi la prende in giro. E si diverte a essere imperscrulitabe, imprescrutalibe, imperscrutabile! Fatica a dirla bene tutta d’un fiato, ma le piace il suono di quella parola che aveva usato papà, un giorno, dopo che gli aveva messo un broncio arrabbiato, non voleva dire per cosa, una cosa imperscrutabile.
Prima della fine dell’intervallo, sua madre, la maestra, la rimanda nella sua classe. Eleonora saluta tutti e strizza l’occhio a Stefano, imbarazzato per quel segno di intesa.
«Chissà se anche lui, a casa, gioca con il suo vestito da Davy Crockett; forse preferisce il Meccano – pensa – magari glielo chiederò, oggi pomeriggio».
«Eleonora, che fai? Parli da sola? – le chiede Mafalda, la bidella – Sbrigati! Le tue compagne sono già tutte rientrate».
A casa, più tardi, si prepara per il pomeriggio in maschera, ma non c’è neanche l’ombra dell’incanto di quando si infila il suo abito rosa la sera, prima di dormire.
«Metti sotto anche questa maglia» insiste sua madre.
«Ma non ho freddo!»
«Mettila!»
«Ma mi sento imbottita!»
«Meglio imbottita che con il mal di gola e la febbre e poi dobbiamo chiamare il dottor Marcucci».
«Uffa però» protesta Eleonora mentre sua madre chiude la cerniera con qualche difficoltà.
Papà le strizza l’occhio. «Rispondo io» dice allo squillo del citofono: Caterina avverte che la mamma di Stefano aspetta la bambina nell’atrio.
Caterina, la portinaia, è veneta: a Eleonora piace molto il suo accento e le piace stare con lei, quando sua mamma la lascia poche ore nella piccola portineria, a giocare con suo figlio. Si affacciano spesso alla finestra che dà sulla via, guardano i passanti dall’alto e ridono di niente. A volte, quando vede il suo papà arrivare dalla vicina stazione, scende di corsa dal predellino e lo aspetta affacciata al vetro scorrevole che dà sulle scale dell’androne.
Caterina è divertente e grande, alta come la porta dell’ascensore che apre:
«Guarda come sei bella! Una vera principessa!» esclama appena la vede.
«Te l’avevo detto che il mio abito era bellissimo».
«Anche la coroncina di perle! Fammi vedere la fronte, hai ancora il segno?»
Caterina la osserva preoccupata mentre, delicata, le sposta la frangetta.
Eleonora offre la fronte allo sguardo di Caterina con una confidenza e una fiducia che sua madre nota con una certa sorpresa.
«Io non so cosa sia venuto in mente a Luigi quel giorno» commenta Caterina dispiaciuta.
«Stavamo giocando, non ha fatto apposta».
«Ma ti è rimasto un pezzo di matita azzurra sotto la pelle!»
«Non me ne accorgo neanche. Ciao Gioacchino, oggi sei a casa?»
«Facciamo festa anche noi».
Gioacchino era grande come sua moglie, grande quanto buono.
«Luigi non si veste per carnevale?»
«Lo sai com’è vergognoso, non vuole».
«Non è che l’hai messo in castigo per la matita, vero?»
«Ma no, ma no» la rassicura Gioacchino.
«Vai, ti aspettano, divertiti» le augura Caterina.
«Ciao!» saluta felice la Principessa, senza pensare che forse Luigi non era vergognoso al punto da rinunciare a una festa, forse non aveva una maschera.
Mentre le due mamme si scambiano accordi e convenevoli, il papà di Stefano apre la portiera della Millecento. La Principessa, senza badare all’incanto che l’abito le dona, nonostante le tre maglie di lana sotto il corpetto, entra nell’auto, saluta Davy e gli si siede accanto:
«Cos’hai portato da lanciare? – gli chiede – Io ho un sacchetto di coriandoli».
«Anch’io, e poi ho questo».
«Un bastone?»
«Un manganello, da picchiare in testa agli altri, senti».
La Principessa strabuzza gli occhi incredula e si ritrae per evitare il colpo.
«Ma non volevo picchiare te! A parte che è leggerissimo, fa solo rumore. Ascolta».
Una specie di sorda pernacchia esce dal manganello pestato sul sedile anteriore.
La Principessa scoppia a ridere e si lascia andare, tranquilla, sullo schienale mentre l’auto si infila nel traffico. Davy è contento di averla divertita e, visto che ha riso, cercherà di farla ridere ancora, pestando il manganello sulla testa di più bambini possibile, ogni bambino una risata. Sembra che tutti si siano dati appuntamento in Corso Buenos Ajres, stracolmo di maschere. La Principessa scruta ben bene tutte le damine, indiane, fatine e Colombine che incontra: non vede principesse, nessun abito è più bello del suo! E nessun pirata, indiano, mago Merlino o Arlecchino è più carino di Davy! È vero che ha spesso un’aria malinconica, però quando giocano, si diverte, la segue nelle sue invenzioni, a volte persino le anticipa. Infatti, come se fossero soli tra la folla chiassosa, Davy e la Principessa hanno lo stesso pensiero: aprono i loro sacchettini, infilano la mano e lanciano coriandoli sui gruppetti che passano.
Volano stelle filanti colorate, esplodono mucchi di coriandoli, si allungano lingue strombazzanti, ma Davy si accorge che, in fondo, la Principessa è infastidita dalla luce, dal vento, dalle voci stridule e la difende a suon di manganellate, deboli, incerte, innocue, ma sonore. La folla delle maschere si dirada, qualcuno ha finito le munizioni e si rifugia dietro le gonne della mamma, che provvede al rifornimento; qualcun altro invece si allontana, portato via da una mano vigorosa. Torna così il sorriso sulle labbra della Principessa, che svuota il sacchetto dei coriandoli sulla testa di uno scheletro intenzionato a spaventare Davy. Colto di sorpresa, lo scheletro sputacchia pezzi di carta colorata e Davy manganella sulla testa anche lui.
Sembra che duri pochissimo la passeggiata lungo il corso, ma ormai il sole cala; dopo qualche insistenza, Davy e la Principessa si arrendono all’idea di dover tornare a casa. I genitori di Stefano li ascoltano commentare le loro imprese. Lui li osserva dallo specchietto retrovisore: sotto le sopracciglia scure gli occhi passano veloci dalla strada ai bambini che non possono vederlo sorridere sotto i baffetti; lei è contenta, si gira a controllare, si rivolge poi al marito con uno sguardo di intesa, scioglie il nodo del foulard che riparava dal vento l’impeccabile acconciatura raccolta.
Sotto casa della Principessa c’è ancora qualche mascherina da sfidare, i coriandoli però sono finiti, il manganello non suona più e i bambini appaiono stanchi. Anche Caterina e Gioacchino hanno chiuso la portineria; quando il portone si apre, la mamma di Eleonora li invita a salire, ma è tardi, i genitori di Stefano rimandano ad un’altra occasione.

Eleonora richiuse la scatola, cercando di riporre tutto il contenuto così come lo aveva trovato: pezzi tagliati, ripiegati uno sull’altro, il taffetà, il tulle, il raso delle maniche, le perline ancora salde nell’impuntura. Il suo abito rosa era finito lì, in una scatola, disfatto, ridotto a brandelli scuciti da chi non aveva saputo che farsene.
Inutilizzabile per tutti, aveva valore solo per sua nonna e per lei.
Ricordò: «Che te ne fai?» le aveva chiesto sua madre con aria di sufficienza, mentre lo toglieva da un armadio e lo infilava in un sacco di indumenti smessi.
A chi era destinato? Chi aveva disfatto l’abito rosa e perché? Come lo aveva recuperato la nonna?
Eleonora prese la scatola. La portò a casa e la infilò nel proprio armadio, ben nascosta, protetta, come i ricordi che alimentava.

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