Nepal perduto

Le quattro del mattino. L’Everest era lì, di fronte, altissimo nell’alba tenue. Seduta su una panca di legno, sorseggiavo il tchai bollente, versato da una donna nepalese senza denti che stringeva gli occhi in un sorriso. Mi sono inginocchiata, poi sdraiata, le mani giunte, lo sguardo rivolto alla cima. Paffute nuvole bianche scorrevano rapide, e nell’odore della terra mista all’haschisc che usciva dalla capanna, ho saputo il significato. Lo stesso, pieno e profondo, che sentivo camminando a Bhaktapur e a Patan. Ferma nella piazza, il significato era un’onda di silenzio e stupore, neanche scalfito dallo sciabattare delle donne e uomini che passavano, né da un rombo di una scadente motocicletta. Il significato correva nelle acque di Pashpatinath che lambivano i gradini come a Benares, ma senza il brulicare oceanico dell’India. Certi luoghi in Nepal sono quieti, di una quiete mistica che passa con l’aria nell’odore dei fiori e dei fuochi, del sapone con cui le donne lavano i panni nelle vasche. Il significato veniva solcato dalla chikara che fendeva il lago di Pokkhara, il remo immerso nel verde, spinto verso il tempietto di legno proprio nel mezzo del lago, mentre un martin pescatore si appollaiava in attesa di tuffarsi tra i pesci. La corona degli ottomila a proteggere la valle, vigili custodi. Cosa è rimasto? Le macerie sputano polvere e morti, affamano i sopravvissuti. Gli occhi del budda che guardano i quattro punti cardinali e la piana di Katmandu dallo stupa bianco di Swayambhunath, lassù al tempio delle scimmie, sono miracolosamente illesi ma sgomenti. Intorno a un popolo gentile che sta pregando e morendo, davanti alla scomparsa di antichità pervase dalla sacralità e dalla bellezza, la vita è soffiata via. Ma il significato no, rimane in noi che l’abbiamo provato talmente intenso anche solo una volta, e in loro che nella povertà estrema lo conservano dalla nascita. Anche nel piangere migliaia di morti.

 

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