Nessuno è tornato

 

Era dietro la porta di casa, la mia, e la cosa non mi stupì nemmeno molto; vederlo, intendo. Ci siamo guardati in silenzio. Ciao, mi fa, ciao, gli dico. Silenzio. Si tira su la zip del maglione blu scuro, fino al collo. È freddo sul pianerottolo di casa, lo guardo. Dice che mi voleva telefonare da tempo ma passando dal mio quartiere aveva pensato di venire direttamente a suonare. Era tanto che non ci vedevamo del resto, da quando aveva lasciato quel lavoro, il nostro. Quel bel lavoro, dice, gli mancava.
Sparire come aveva fatto non era stato bello, no. E ci pensava a me che lo riportavo a casa ogni sera, a me che non lo lasciavo a piedi, mai, a me che lo ascoltavo, me come nessuno, sempre.

Era magro, più magro del solito, pallido, penso. I capelli li aveva tagliati tutti, completamente, e gli era uscito un muso da topo che gli dava un’aria ancora più nervosa. Lo guardo. Guardo quel muso muoversi ritmicamente e provo ad ascoltarlo, ci provo. Pareva squittire mentre mi raccontava di quegli ultimi sei mesi, dello sfratto, del sonno perso e di quel tipo al lavoro. Ricordi? Quello del calcio al sedere quel giorno. “Sì, ricordo”.
Dice che si era trasferito da lui a vivere. Negli ultimi mesi erano diventati così amici e del resto gli era stato così vicino quando la sua ragazza se n’era andata, quella che non voleva, quella che non amava, che gli era sembrato proprio naturale si trasferisse, al posto di quella che non voleva, ma che in fondo gli mancava, quella che però se n’era andata. Capisci? “Più o meno”.

Questo gli aveva proposto un lavoro, un lavoro furbo da fare in due, insieme, loro. E lui aveva accettato, gli stava bene, erano amici. Gli aveva offerto di fare il guardiano di notte in una rimessa di mezzi di trasporto, Grossi Camion Grandi trasporti. Ditta Randazzo, si chiamavano. Li avrebbero pagati per intero ma solo alla fine. Un mucchio di soldi tutti in una volta. Il guardiano quindi, uno dorme e l’altro sta sveglio. Capisci? E si guadagna bene, in fondo, di notte, se dormi e ti pagano mentre l’altro sta sveglio. Si guadagna bene a controllare che nessuno si freghi niente, che so, un cacciavite, una marmitta, un camion, una vite e poi di giorno fai quello che vuoi perché l’altro lavora e tu dormi. È facile, no? Essì, è perfetto, è da furbi. Accettiamo!

Mi racconta, sempre lì sul pianerottolo di casa, che tutte le ultime notti di quegli ultimi sei mesi le aveva passate così, senza dormire, una dietro l’altra. Sei. E fa il gesto con le dita per segnare il conto. E non lo capiva il perché, ci pensava, si disperava, ci ripensava ma non capiva perché non avesse mai dormito, lui, e lui solo, per tutto quel tempo. Eppure, ogni volta di ogni notte di tutte quelle notti che gli toccava andare alla rimessa Randazzo! rannicchiato sul sedile posteriore della vespa, lanciato lungo una provinciale dietro a uno su una moto, stretto addosso a quello, l’amico, lungo tutto quel buio a difendersi dalle scariche di vento che come lame arrivavano da ogni parte, così, a tagliargli la faccia, le mani, le orecchie e la gola, ecco che dopo tutto quello, ogni notte per sei mesi, ovvero freddo, strada, lame, paura, vespa e provinciale, il suo compagno per qualche motivo: spariva. Spariva, capisci? E grida Randazzo! Randazzo! Randazzo! all’improvviso e a piena voce che io salto in aria sbattendo la testa sullo stipite della porta, cazzo!

Arrivati al cancello lo scaricava di botto, mi dice. Si era dimenticato qualcosa e poi sarebbe tornato. Giusto il tempo di andare e tornare. “Tu aspettami che torno!” diceva dando due colpi di acceleratore mentre lui rimaneva sotto la scritta gigantesca della ditta, a dondolare per un attimo su se stesso in una nuvola di gas, intirizzito, solo, e soprattutto con la strana sensazione che qualcosa di centrale gli stesse sfuggendo. Ma non capiva cosa.
Si girava a guardare la rimessa, a contemplare il buio davanti e dietro le sue spalle, in quella luce, in quel silenzio, quel silenzio dei posti tutti uguali al margine di qualche posto da qualche parte, e allora, preso in contropiede, entrava. A stare lì, a guardare per conto di qualcuno degli enormi camion. Enormi come bestie ferme nelle stalle. Enormi come masse di metallo nere a spurgare nell’aria della notte il loro grasso. Grasso esalato come un piscio denso, lento, e messo a terra in un fiato da condividere per forza. Lui e quell’aria pesta, a respirare. Solo.

A quel punto in quel silenzio gli veniva paura. Raggiungeva un fabbricato, sulla destra del cancello appena dentro, un gabbiotto che fungeva da ufficio, e si metteva ad aspettare che l’altro tornasse, così, come gli aveva detto. Aspettami! gli pareva di sentire nel vuoto della notte. Aspettami! Arrivava, forse, dalla strada coi lampioni impalati al freddo, uno dietro l’altro, come lui. Aspettami! Così, ogni notte di tutte quelle notti. E se ne stava seduto su una sedia rotta, a farsi passare la paura e il sonno, lì, a pensare alla sua vita, alla fidanzata, a quella che non voleva ma che in fondo gli mancava, a se stesso e perfino a me. E un po’ gli veniva da piangere. E infatti piangeva.

La mattina l’amico si ripresentava verso le cinque e tutto contento, gli raccontava un mucchio di cose che lui faticava a capire e gli faceva sempre la solita proposta: «Ascolta! Per ogni notte che ti sei fatto qui, tu, io me ne faccio due. Una tua, due mie. Pensaci! Alla fine di quest’anno io avrò lavorato il doppio di te ma per lo stesso stipendio. È furbissimo».
E a lui pareva furbissimo. Tornava a casa distrutto, andando avanti mesi, convinto che avrebbe lavorato la metà. Una mattina la rimessa aveva riaperto ma l’amico non si vedeva. Niente vespa, niente amico. Aveva aspettato fuori dal cancello, a disagio, per diverse ore, ma nulla. Prova a chiamarlo, niente. Va dal padrone della ditta e quello gli spiega che il giorno prima l’amico era venuto a ritirare l’ultima paga, e siccome gli accordi li aveva presi con lui, è con lui che aveva saldato tutti i conti, come sempre. “ Di me non ne sapeva nulla!”, mi dice disperato.
Restiamo in silenzio un pezzo, poi mi guarda, abbassa gli occhi, e con una voce sottile, appena percepibile, mi dice di essere tornato a casa a piedi quel giorno. Tutta la provinciale, a piedi, fino a casa. Mi guarda e sta per piangere. Mi racconta che sfinito, quel giorno aveva trovato nella cassetta delle lettere pure la notifica dello sfratto, niente lavoro, niente casa, niente amico. Capisci?
Lo guardo. “Ce l’hai da dormire stasera? “ Scuote la testa. “Entra dai!”.

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