Nicola Lagioia, LA CITTA’ DEI VIVI

Un libro duro, un libro necessario. Duro, perché narra un terribile fatto di cronaca avvenuto a Roma nella notte fra il 4 e il 5 marzo 2016. Necessario, perché aiuta a scandagliare il nostro presente nei suoi risvolti più insondabili. Protagonisti tre giovani: Manuel Foffo, 30 anni, studente universitario fuori corso – figlio di un assicuratore – e Marco Prato, 29 anni, una laurea in scienze politiche e un lavoro come organizzatore di eventi, gli assassini; Luca Varani, 23 anni, la vittima, torturato e ucciso, senza motivi comprensibili, con almeno 100 tra colpi di martello e coltellate. Manuel condannato a 30 anni, Marco morto suicida in carcere. L’assenza di motivazioni plausibili è forse la chiave per tentare di addentrarsi in questo terribile evento. Il libro è costruito con una tecnica che oscilla fra il processo – è frutto di un’accuratissima ricostruzione delle indagini – e la tragedia greca: il ‘coro’ dei genitori e degli amici che narrano all’autore le vite e i caratteri dei tre giovani protagonisti fino a comporre un quadro che somiglia a quelli del cubismo. Manuel non conosceva neppure Luca, la vittima; Marco lo aveva visto invece solo un paio di volte e lo aveva ‘convocato’ quella notte fatale nell’appartamento con un sms prospettandogli qualche euro in cambio di prestazioni sessuali. Tragedia, quindi, anche perché – secondo quanto ricostruito negli interrogatori – i giovani assassini, come i personaggi della tragedia greca, autori di una colpa senza colpa, compiono un destino del quale nulla sanno, che non hanno progettato, ma che si trovano a realizzare via via, come trascinati da una forza superiore che li travolge, spingendoli a una violenza sempre più efferata. Come se, in una specie di “contagio psichico”, non riuscissero nemmeno più a distinguere la propria dall’altrui volontà omicida, rafforzandosi tuttavia l’un l’altro nel proposito che si materializza alla fine, di vedere – parole di Manuel – “l’effetto che fa” uccidere gratuitamente un terzo incolpevole. Il PM al quale venne affidato il caso affermò che i due indagati si erano reclusi nell’appartamento di Manuel per 3 giorni, in preda a alcool e cocaina in dosi massicce, ‘costruendo’ man mano, nei loro dialoghi deliranti, la scena psichica del delitto, a partire dalla fantasia di uno stupro, e la mattina del terzo giorno avevano girato in automobile alla cieca cercando “un qualsiasi soggetto da uccidere o comunque da aggredire solo al fine di provocargli sofferenze fisiche e ucciderlo”. Libro necessario, perché mostra qual è la vera forza che muove la mano dei giovani assassini: il vuoto assoluto di tanti luoghi e non-luoghi del nostro presente, le discoteche, i bar, i ritrovi dove consumare il tempo e dove lasciar galleggiare la vita, priva di qualsiasi spinta ideale, di qualsiasi valore positivo, abitata da una disperazione che tentano di colmare con dosi massicce di alcool e cocaina, liberando così quella parte oscura che abita in ciascun essere umano. Dunque non solo un omicidio, ma due suicidi, uno dei quali divenuto reale. Infatti, non avendo progettato nulla, attirare Luca nell’appartamento era, nelle parole del narratore, “come mettersi sulle proprie stesse tracce per celebrare un rito preparato con meticolosa inconsapevolezza nei mesi precedenti”. Doppia inconsapevolezza, anche successiva all’omicidio: nei colloqui in carcere Manuel comunica al fratello la sua angoscia perché d’ora in poi tutta Italia penserà che è “frocio”. E Marco chiede al padre cosa stanno scrivendo sulla sua pagina Facebook. Dunque, in entrambi, incapacità assoluta di metabolizzare la tragedia, forse nel tentativo disperato di rimuoverla, o, piuttosto, per costitutiva incapacità di guardare oltre il vuoto che li abita e li divora.

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