Lo notò per la prima volta in una luminosa sera d’autunno: non le era mai capitato che un moscerino si posasse sul piccolo schermo del suo computer, senza svolazzare come tutti i bravi moscerini autunnali ma spostandosi lentamente tra i caratteri delle parole che digitava.
Non gli prestò molta attenzione sulle prime, provando solo un annoiato fastidio per quel puntino che arrancava da una lettera all’altra. Una o due volte aveva cercato di cacciarlo soffiandolo via con delicatezza (non avrebbe mai fatto male a una mosca, figuriamoci ad un moscerino!) ma vanamente. Subito era tornato a passeggiare tra i milioni di pixel dello schermo.
Incominciò a incuriosirsi dopo qualche sera. L’insettino sembrava incollato al suo monitor, non volava mai via di lì e camminava a sghimbescio, tra le parole, con quelle sue sottili zampette nervose. Sera dopo sera, lo osservava con sempre maggiore attenzione: ne studiò il corpo puntiforme, le aluzze quasi invisibili, le lunghe zampine stecchite. Cercò di individuarne gli occhi, ma era talmente minuscolo che non vi riuscì. Attendeva, pian piano che passavano i giorni, di trovarne il cadaverino sulla tastiera, o appiccicato per sempre al vetro dello schermo. Invano. Sembrava un puntino senza significato su uno sfondo nero ma poi, una volta illuminato dall’immenso occhio di bue di un desktop abbagliante di colori, ecco che il moscerino si animava e cominciava a percorrere saltellando le immagini e i testi.
“Di che si nutrirà?” si chiedeva con materna sollecitudine. Dopo qualche settimana, arrivò al punto di sbriciolare cracker sulla scrivania, perché lui potesse alimentarsene. Lasciava un ditale colmo d’acqua accanto al mouse, perché potesse dissetarsi. Apparentemente, non fu mai toccato nulla. “Cosa sto facendo?” si domandava, incredula.
Lo stupore aumentò quando si sorprese a scrivergli una lettera. “Chi sei? Cosa fai sul mio computer? Perché sei qui?”. Fu certo una banale casualità quella che spinse il moscerino a muoversi tra quelle parole, posandosi con studiata lentezza ora su una vocale, ora su una consonante, quasi come se stesse… “Formando una parola! Sta formando una parola, una frase!!! S-O-N-O-Q-U-I-P-E-R-T-E . “Sei qui per me? Cosa vuoi?” domandò ad alta voce, ma non le rispose che il consueto silenzio della sua casa. “Devo essere impazzita” si vergognò tra sé, e si andò velocemente a coricare.
La sera seguente il suo moscerino si rianimò all’accendersi del computer. Ma dove stava durante il giorno? Possibile che si rifugiasse all’interno della macchina? Chissà in quali minuscoli pertugi si infilava, quali circuiti percorreva, in quanti fili si disbrogliava. Decise di ritentare l’esperimento. Scrisse: “Cosa vuoi?” e, sotto, tutte le lettere dell’alfabeto. La sua pazienza fu premiata: come studiando uno specifico percorso, l’insetto si spostava tra i caratteri, una o più volte, componendo infine una frase di senso compiuto: “Sei sicura di volerlo sapere?”. Lei trovò questa risposta irritante e vagamente minacciosa, quindi la ignorò, dandosi della matta e riprendendo il suo lavoro. Non riusciva però a concentrarsi e, come la sera precedente, andò prima del solito a dormire.
Trascorse qualche giorno imponendosi di ignorare le mosse del moscerino, batteva furiosamente i tasti, concentrandosi su quanto andava scrivendo, non degnando di uno sguardo le nervose zampettine che solcavano, avanti e indietro, il monitor. Infine non resistette e digitò: “Sì, lo voglio sapere!” e poi scrisse ancora una volta le lettere dell’alfabeto. Questa volta il moscerino compose una strana parola, “Nimrod”. Che mai voleva dire? La cosa, seppur deludente, d’altro canto la consolava, dopo tutto, era un semplice, innocuo insetto che casualmente si era posato su alcune lettere senza significato.
Alcune sere dopo, mentre stava redigendo un importante documento, ebbe la sensazione di essere osservata. Non c’era nessuno nella stanza, tranne lei e… “Il moscerino!” esclamò atterrita, notando per la prima volta un puntino candido che spiccava sul nero del minuscolo corpicino. “Possibile che abbia un occhio solo?” si chiese. Ancora una volta digitò l’alfabeto e, ancora una volta, muovendosi tutto a sghimbescio, le zampine formarono ancora la parola sconosciuta: “Nimrod”. “Ma che significa?”. Il piccolo occhio bianco pareva ora fissarla con scherno, e il letto fu nuovamente la sua via di fuga.
Il giorno seguente si diede alla ricerca del significato di quel misterioso termine e si recò in biblioteca. Dopo alcune piste infruttuose, trovò la traduzione di un brano di Muhammed Ben Garir Tabari, storico arabo del IX secolo d.C., in cui si raccontava la fine del creatore di un grande impero: “Dio ispirò a un moscerino fra i più deboli, orbo d’un occhio e zoppo, di scendere dall’aere e posarsi sulle ginocchia di Nimrod. Costui tentò di colpire il moscerino, ma quello volò via, gli entrò nella narice, da lì risalì fino al cervello, e cominciò a mangiare. Nimrod si colpì la testa e ogni volta, il moscerino si fermava e non mangiava il cervello, così che quel principe aveva requie. Perciò, per diminuire i suoi dolori, bisognava dargli continuamente colpi sulla testa; appena si smetteva di colpirlo, il moscerino ricominciava a mangiare il cervello. C’era sempre una persona impegnata a colpire con qualcosa la testa di Nimrod, per procurargli un po’ di sollievo. Quel principe ordinò che venisse forgiato un martello da fabbro, e i principi, i comandanti dell’armata, e i cortigiani più intimi, quei pochi rimasti vivi, prendevano quel martello e picchiavano sulla testa di Nimrod. Più i colpi erano forti e violenti, più Nimrod era soddisfatto. (…) Si dice che abbia vissuto ancora quattrocento anni, con quel moscerino che gli rodeva in continuazione il cervello; e ogni giorno degli uomini si alternarono per dargli martellate sulla testa”. (Tabari, I profeti e i re. Una storia del mondo dalla creazione a Gesù A cura di Sergio Noja Tr.it. S. Atzeni, Guanda, Parma 1993)
Si sentì svenire.
Tornata a casa, armata di una bomboletta di insetticida, si precipitò nel suo studio, accendendo con precauzione il pc. Il moscerino non era più sullo schermo! Guardò con circospezione tra i tasti, sul mouse. Nulla. Allora cominciò a spruzzare insetticida come una pazza ovunque, negli altoparlanti, nella ventola, in ogni pertugio del computer e della stanza. Nulla. Nessun ultimo fremito di ali o di zampine, nessun cadaverino stecchito. Nulla, se non un’emicrania sempre più fastidiosa, sempre più forte, sempre più insostenibile.
Fu quella sera che iniziò a dare testate nel muro, così forti che i vicini, allarmati, chiamarono il 118. Venne ricoverata in un centro di igiene mentale, dove si trova ancor oggi, intenta a colpirsi la testa appena la sorveglianza si allenta. Se interrogata, ripete ossessivamente una sola parola: “Nimrod, Nimrod, Nimrod!”.