Nobile stirpe

La prima volta che ho incontrato la piccoletta malvestita era il Ferragosto del 1993. Traccheggiavo, come al solito, intorno alla stazione di Sori, e quella tipa appoggiata al muricciolo di fronte al baretto, con lo spumantino in mano, avrebbe dovuto risvegliare qualche sospetto nei miei raffinati istinti.
Per caso era facente parte della banda Seguaci Di Bacco Dei Bagni Sillo?
Ohimè devo, con mio grande rammarico, ammettere che la mia di solito altezzosa madre li frequentava.
«Noi, che siamo di così nobili origini! Hai dimenticato che i nostri antenati vivevano alla corte degli zar di tutte le Russie? Come puoi frequentare un tal brutto ambiente?» 
«Si mangia bene»
«Golosa. Ma lo sai che ti chiamano Novecode e dicono che sei la più stronza della Riviera di levante?»
«Ma anche la più bella»
«Golosa e vanitosa: femmina!». 

Comunque ci sapeva fare, quella piccoletta malvestita, così mi son lasciato sfruculiare un po’.

«Sei proprio bello, sembri un Russian Blue, assomigli… ah ecco! Tu devi essere figlio della Novecode! La gatta più str…».
Decisamente era nel giro di quei beoni dei Sillo. Poi dei cani abbaiarono lì vicino e me la filai tra gli orti.
Beh, per farla breve, meno di due giorni dopo mi ritrovo in una stanza sconosciuta con due tipi. Uno era il disgraziato che, piombatomi addosso mentre dormivo sotto il mio solito arancio selvatico, mi aveva ficcato in una gabbia di ferro. L’altra, credo umana pure lei, anche se al posto della bocca aveva due gomme da bicicletta, parlava dentro una scatola.

C’era pure un altro gatto, un roscio, che conoscevo di vista, un volgarotto che in condizioni normali non avrei degnato, ma vista la situazione:
«Beh com’ è la storia?»
«Eh bello mio. Scusa la battuta, ma sei del gatto!»
«Davvero idiota. Che vuol dire?»
«Che si vogliono prendere cura di te. Ma non come me che vado e vengo come voglio. Ti portano in una città, dentro una casa. Dove resterai giorno e notte»
«Ma che palle!»
«Quelle te le scordi per sempre. È la prima cosa che ti tolgono»
«Ahi, aiuto, è un incubo, non voglio! Fatemi uscire!”
In quella entra la piccoletta, ancor peggio vestita e, devo dire, parecchio perplessa.
«E di questo che ne fo?»
«Ma non ti piaceva tanto?», dice la umana gomma-da-bicicletta.
«Da guardare. A Milano vivo in trenta metri quadri, ho un terrazzino di un metro per tre e finisco di lavorare in teatro dopo le undici di sera»
«È pure di basso ceto»
«Eh lo sistemi. Magari, sul terrazzo della tua amica: è enorme. Qui, tra l’Aurelia e i treni farebbe una brutta fine. Intanto portalo su nella casa di Capreno. Poi si vedrà».
«Sì ma il terrazzo di Rita è mica casa mia? Boh. Visto che ormai sei qui, ti porto in collina,  almeno lì c’è tanto spazio fuori e anche tanto verde. Adesso dovrò darti un nome. Allora… ti ho incontrato alla stazione di Sori, che giravi tranquillo tra i binari…»
E qui si è consumato l’estremo oltraggio. Perché, come già menzionato, noi eravamo i benvoluti alla corte degli zar di tutte le Russie e via dicendo, ok? Allora, non pretendevo certo di essere chiamato Zar, sebbene un Nikolaj non sarebbe stato sgradito. Va bene, siamo in tempi di satira e mi sarebbe andato anche un Rasputin. Però non vogliamo discriminare i diversi, quindi avrei anche accettato Anastasia. Sì, l’ avrei accettato. Ma che tu fossi tanto abelinata da chiamarmi TRENO! No, questo no! Eh no, no, no. No!

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