Noi due sconosciuti

Il tremore della sua voce al mattino, quando il letto non aveva più un calore, quando si faceva marzo come improvvisamente e il vento spingeva tutto, i vetri appannati, il cielo con la burrasca del mare, la luce appena gialla dell’alba. Allora prendeva un bicchiere di acqua e lo ingoiava di fretta e il corpo aveva un sussulto e le dava il segnale del vivere. Il vivere possibile.
Lasciava le coperte, pantofole e pigiama e attendeva che lui la chiamasse. Era un momento di difficoltà grande, bisognava uscire dal sogno della notte e poi dal dolore che la accompagnava. Pettinava un ciuffo, si sedeva abbracciando un cuscino e pensava che non avrebbe più avuto desideri. I cristalli della casa lucevano e la palma in giardino sembrava girasse in tondo, e il mare brillava ancora.
Lui era puntuale. La prima domanda riguardava la salute. Lei prendeva una pillola durante la conversazione, sorrideva con fatica, a volte invece leggera di speranza. Immaginava che lui avesse un basco, il colletto del giaccone rialzato, il vento che lo sospingeva lungo il viale, il sapore del caffè nelle labbra, le mani ghiacce. Gli raccontava della sua nottata e del giorno prima e delle gambe che la reggevano poco, della città che avrebbe voluto vedere e degli uccelli nel cielo sopra la casa, del libro poggiato sul comodino e lasciato aperto. Dell’abito che avrebbe voluto indossare, del bacio che non aveva più un tempo.
Lui aveva il freddo nella voce, l’aria nel respiro, la città alle spalle e i suoni allarmanti dei clacson e le fermate dei tram. Le diceva che non l’avrebbe abbandonata ma che doveva pazientare e attenderlo, che lui curava il dolore e la teneva stretta, ma avrebbero avuto solo le loro voci e un amore che non era un amore, però la pensava e lo avrebbe avuto sempre così e ciò poteva bastare. Lei, durante, vedeva un coniglio attraversare la campagna e poi un uccello con le ali aperte posarsi in cima all’albero più alto e capiva che loro avevano due mondi lontanissimi e pure vicinissimi. Lui la salutava con un po’ di fretta, col tono alto e sicuro, lei con le parole sospese e che si affievolivano man mano. E poi, esausta, si abbandonava sulla poltrona e il sole inondava d’un tratto la stanza e il verde fuori, e il mare luceva e lei sapeva che stava esistendo lo stesso. Che tutto poteva essere la pagina di un romanzo o anche niente.
La sera stava sdraiata, accendeva le lampade, il corridoio in penombra, le tende accostate, il rumore spaventoso del mare che conosceva bene, il paese puntellato da luccichii. Il cellulare squillava ed era il solito colpo al cuore, la punta di un dolore alla tempia, il timore di non sentirlo più. Lui tornava a casa, chiudeva lo studio, abbassava le serrande, spegneva i lampadari, chiudeva la porta e intanto parlava con lei. Per non perderla. Le chiedeva se aveva cenato, se aveva rimpianti, e intanto il respiro era affaticato lungo la strada che percorreva, lei sentiva i suoi passi sul selciato. Gioiva lui se lei rideva, le diceva di pensare ad un albero prima di addormentarsi, e lei allora guardava gli alberi neri del giardino e li credeva complici del loro parlare. Lui sapeva che lei ormai conosceva solo il dolore, in una commozione crescente. Le raccontava di un viaggio antico, di una preghiera imparata con sollievo, dei pazienti che credeva restassero nel per sempre, del Gange e della neve, di ciò che lei sapeva dire e pensare, di come la avrebbe accompagnata nei giorni. La notte scendeva per ambedue, in due case diverse, in due menti lontane, in due stanze, in due passati mai vicini. Lei gli dice sorridendo: ti ricordi quel film dal titolo “Noi due sconosciuti”?
E lui le dice: leggi il libro che ti ho consigliato, ci sei tu lì dentro. Tutta tu.
E il saluto arriva gioioso e un po’ imperioso. E lei socchiude gli occhi. E pensa. Ed è ciò che sa fare: pensare.
Sa che dormirà a stento, che guarderà a lungo fuori, nel buio, sa che avrà ricordi strani e sogni duri, che accenderà la lampada e il tetto della stanza avrà un ghirigoro traslucido e asciugherà i suoi occhi stanchissimi, e sentirà il freddo dell’inverno a mare, quello che fa appiccicare le lenzuola e non fa trovare spazio nel letto. Poi leggerà un poco, fermandosi più volte, toccando il suo viso e guardandosi allo specchio per ritrovarsi. Lui sarà distante e come inesistente, un pensiero estraneo, un amore mai nato.
La città di lui ha tetti rossi, strade strette, portici antichi, ombre. Il paese di lei ha colori irriverenti, sfacciati a mezzogiorno, tenui al mattino, aranciati sul finire del giorno. Ma lei vorrebbe andare dove lui vive, sentirne il freddo deciso che perfora il petto e i pensieri, i filari in periferia, la neve sui monumenti, i cappotti pesanti e i guanti alle mani, il brodo della cena, le risate forti, il vino scuro, il profumo denso dei pranzi domenicali. Lui le racconta delle sue passeggiate sotto i portici e i comignoli che fumano. Lei lo aveva voluto questo uomo, lo aveva afferrato con le mani e con le parole. Per non perderlo mai. La sua voce nel cavo dei polmoni e nel cervello. La sua vita al mare stravolta. Il futuro di seta e ragnatela. Le ore da sopportare in silenzio e in attesa. Il futuro inventato nel per sempre.
Di lei nessuno saprà nulla. Di lui pure. Vivrà lei ancora un poco. Poi resteranno le sue cose e lui non le avrà mai.
Saranno due sconosciuti anche nel dopo che non esiste. Lui camminerà nelle strade della sua città dai tetti rossi, ricordando il sospiro di lei al mattino. Come un dono.

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