Che tipo che era, mio nonno.
Alto. Occhi azzurri. Capelli bianchissimi e bel portamento, perfettamente eretto nonostante gli anni. Un gran bel nonno, insomma. Nativo di un paesino della Liguria più impervia e inaccessibile, parlava molto poco. Ma quel poco mica era, come già state sicuramente pensando, la nenia incomprensibile di un Gilberto Govi (che peraltro mio nonno adorava), macché. Italiano perfetto.
Vedovo da tempo immemorabile di mia nonna, che Dio l’abbia in gloria, è stato una presenza taciturna ma incisiva, nella mia numerosissima famiglia, fornendo un contributo decisivo alla sua evoluzione economica, anche. Sì, perché si dice che abbia costruito con le sue mani (magari qualcuno l’avrà anche aiutato, ma son dettagli) la casetta di Quarto dei Mille che ancor oggi, dopo tanti decenni, è saldamente in piedi e ospita addirittura un membro importante del mio nucleo familiare, ossia mio fratello. Sono stato a Genova pochi mesi fa e, diciamolo, mi ero perso in macchina nei mille saliscendi della Superba, arrivando in una stradina deliziosa ma a me del tutto sconosciuta: mi fermo, perplesso, smanettando e smadonnando col navigatore ed eccola lì, davanti ai miei occhi: mio nonno mi aveva guidato esattamente di fronte alla casetta che aveva costruito lui. Come l’ho riconosciuta? Semplice: c’era scritto “Villa Emilia”, con dei sassolini bianchi e neri murati nel viottolo del giardinetto. Emilia naturalmente era mia nonna. La villa era la casetta, ma non state a sottilizzare, cribbio.
Verso la fine della guerra, i miei abitavano a Firenze e i tedeschi, incarogniti dall’armistizio dell’otto settembre del ’43, cercavano con teutonica tenacia mio padre, ingegnare alle ferrovie, per portarselo via in Germania a lavorare a qualche arma segreta. Lui, mio padre, indossato il passamontagna nero in dotazione ai fuochisti e sporcatosi un po’ di fuliggine, era riuscito a scappare per il rotto della cuffia. Ma quelli insistevano, bussavano tutti i santi giorni al portone, sempre più cattivi: bisognava cambiare aria velocemente. Perciò i miei trovarono in quattro e quattr’otto un’altra casa e via, coi mobili accatastati su una specie di carretto che rotolava su cuscinetti a sfera rimediati chissà dove, che faceva un fracasso d’inferno. Sul carretto c’era anche la sedia del nonno. Con lui sopra, perché si era ammalato piuttosto gravemente, sotto i bombardamenti quotidiani.
Arrivati nella nuova casa, passò qualche giorno e i vicini della vecchia casa, amici fraterni come si diventa solo in tempo di guerra, scampato il pericolo, vennero a trovare i miei. Al termine della visita, mio nonno salutò tutti uno per uno, con la consueta gentilezza.
Il giorno dopo era morto.
Che tipo che era, mio nonno. Sarebbe stato bello, averlo conosciuto.