Ô BARBA LINO (lo zio Lino)

Il lessico famigliare di una vecchia famiglia genovese tramanda frasi e parole in dialetto, attribuite a parenti divenuti – nello scorrere delle generazioni – esseri mitologici, protagonisti di scenette caratterizzate dalla bizzarria dei personaggi. Il parente di cui voglio parlarvi, tale zio Lino (barba Lino), era un concentrato di eccentricità e di cattivo carattere zeneise (genovese), insomma: un perfetto stondäio (introverso, stravagante). Lo sopportava una santa donna, sua moglie Luigia (detta Giggia, sì, come la protagonista femminile, moglie di Govi, nei celeberrimi “Manezzi pe majâ na figgia”, “I maneggi per maritare una figlia”, commedia che, a sua volta, ha creato frasi che sono nel lessico famigliare di noi liguri, ma magari di questi vi parlerò un’altra volta). Zia Giggia (lalla Giggia) faceva un po’ da cuscinetto tra il marito e il resto del mondo, rendendo le sue manie buffe eccentricità e smorzandone il potenziale offensivo.
Tra le mille manie dello zio Lino, vi era quella di “portarsi avanti”. Ogni occupazione della giornata, dal lavoro esterno alle piccole faccende di famiglia, doveva svolgersi senza sbrodolature o distrazioni, in tempi resi ottimali dalla quotidiana ripetizione degli stessi gesti. Man mano che lo zio invecchiava, però, l’insofferenza per le perdite di tempo (“son palanche!”, sono soldi!) faceva sì che tali gesti fossero sempre più contingentati. Uno dei compiti che amava riservare a se stesso, era la cerimonia della chiusura delle persiane delle finestre di casa, cerimonia seguita attentamente da zia Giggia, che testimoniava l’avvenuto disbrigo della faccenda, cosa che siglava ufficialmente la chiusura della giornata e l’inizio del riposo notturno. Ma col passare degli anni, tale cerimonia iniziò ad essere sempre più anticipata (forse un segnale della sempre minore sopportazione dello zio Lino per il mondo), fino a quando un giorno, saranno state le tre del pomeriggio, lo zio cominciò il giro delle persiane e a un’attonita Giggia che protestava di non voler starsene in una catacomba, lo zio Lino rispose serafico: Ti veddi, Giggia: ô l’è ‘n travaggio zà fæto (Lo vedi, Giggia: è un lavoro già fatto), frase che ancora oggi ripetiamo ridendo, quando vediamo qualcuno fare una cosa di cui non vi sarebbe alcuna necessità.
Lo zio Lino, poi, aveva una vera e propria idiosincrasia non solo per le serate mondane (per lui incomprensibili e assurde), ma anche per quelle ineludibili occasioni in cui occorreva invitare a casa parenti e amici. Quando proprio era costretto a far buon viso a cattivo gioco – perché zia Giggia lo minacciava di domestiche ritorsioni, nel caso lui avesse guastato la serata – fingeva cordialità nei confronti degli ospiti, per quanto la sua fisiognomica parlasse per lui. Diventando vecchio e debole di udito, quegli inviti imposti dalla moglie o dai figli gli erano divenuti sempre più insopportabili: non solo continuava ad annoiarsi terribilmente, in aggiunta non riusciva neppure a seguire le varie conversazioni. Una vigilia di Natale, com’era tradizione, figli, nipoti e la cugina zitella Ortensia si ritrovarono a mangiare il cappon magro, i ravioli, le mitiche focaccette al formaggio della zia Giggia e il suo inarrivabile pandöçe (pandolce). Lo zio Lino sbocconcellava tutte quelle leccornie, mugugnando tra sé e sé quando, a un certo momento, si accorse di un momento di stanca tra gli ospiti della tavolata. Fu allora che, credendo di parlar piano e invece quasi urlando, disse alla moglie: Mìa, Giggia, lassa cazze ô discorso (Guarda, Giggia, lascia cadere il discorso), accompagnando le parole con l’inequivocabile gesto della mano che significa “così se ne vanno”. Per fortuna, conoscendolo molto bene e soprattutto per amore della zia, gli ospiti scoppiarono a ridere senza offendersi.
Ed è così che, ancora oggi, a un certo punto del cenone della vigilia, quando l’abbiocco comincia a calare sui commensali satolli, ammicchiamo tra noi e ridendo ripetiamo quella frase e quel gesto, ricordando il terribile barba Lino.

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