La nebbia era salita dall’oceano all’improvviso, insieme al buio. Sulla strada che costeggiava la spiaggia, le case di legno erano pian piano svanite nella lanugine bianca che avvolgeva ogni cosa. Si distingueva appena il bordo della strada seguendo gli aloni gialli dei lampioni.
L’uomo aveva acceso gli antinebbia e guidava piano, teso in avanti sul volante. “La pensione dovrebbe essere sulla destra,” disse la donna che gli sedeva accanto. “Con questo tempo ci passeremo davanti senza vederla,” disse lui. La donna pulì il vetro davanti a sé col palmo della mano, ma il vapore era fuori. Aprì allora il finestrino e lasciò entrare l’aria salmastra e pungente della sera.
Più avanti c’era l’insegna di un albergo, e la donna scese a chiedere. Salì le scale dello stabile e si guardò intorno prima di entrare, come per orientarsi. Oltre la fila di arbusti dall’altra parte della strada, intravedeva il biancore delle dune di sabbia contro il nero indistinto dell’oceano. Lo avevano sentito, senza vederlo, per tutto ilpomeriggio, guidando lungo la costa.
La donna rimase immobile nella nebbia ad ascoltare. Non sentiva il rumore del motore, coperto dal fragore delle onde. L’auto era a pochi passi da lei, coi fari accesi, ma la nebbia li rendeva distanti. Tutto era remoto. Separato. Respirò l’aria marina con le narici dilatate. Entrò nella hall dell’albergo e chiese informazioni a un cameriere.
La pensione era due miglia più avanti, verso il centro del paese. La riconobbero per un neon color viola acceso che lampeggiava nella nebbia. Una signora dai capelli bianchi li fece entrare e indicò loro una stanza al primo piano. La stanza era piccola ma ben messa. Le assi di legno scricchiolavano sotto i piedi, e c’era odore di biancheria pulita e di mobili vecchi. L’uomo scostò le tendine di una delle due finestre e guardò giù. “Siamo a est. Dovremmo avere l’oceano di fronte.” La donna si accostò all’altra finestra e guardò fuori. Non si vedeva neppure la cancellata d’ingresso. Solo il neon viola che li aveva guidati fin lì.
L’uomo stava telefonando. “Sì, stasera alle nove. Ci sarò.” “Posso accompagnarti?” chiese la donna. L’uomo aveva ripreso la giacca e stava per uscire. “Andiamo a mangiare qualcosa. Poi dovrai tornare qui da sola.
”Scesero in strada. Il buio si era fatto più fitto. Avviandosi verso il centro del paese, trovarono un ristorante, Cape Codder, specialità pesce fresco. L’uomo ordinò filetto di pesce spada. La donna, una zuppa di vongole. Il ristorante era decorato con reti da pesca, che pendevano dal soffitto insieme a cimeli e trofei di pesca d’altura. Davanti al piatto caldo il volto dell’uomo perse le linee cupe e la stanchezza del viaggio.
“Questo è un ristorante portoghese,” disse sporgendosi sul banco di legno verso la donna, che centellinava una zuppa color latte, colma di vongole giganti. “D’estate qui è pieno di turisti, ma fuori stagione al Cape trovi solo i pescatori portoghesi, o qualche pittore squattrinato.” “Perché portoghesi?” “Questa era una zona di caccia alle balene e al merluzzo. I portoghesi si spingevano fin qui per pescare, e qualcuno c’è rimasto.”
Il pesce era fresco, ben cucinato. L’uomo aveva ritrovato la loquacità. “Domani ci facciamo una bella aragosta. Qui costano niente, e sono grosse così.” L’uomo guardò l’orologio. Doveva andare. La donna avrebbe desiderato restare nel locale caldo e illuminato, ma guardandosi intorno vide persone con cui non avrebbe voluto restar sola.
In fondo alla stanza c’erano due marinai, uno coi capelli biondi legati a treccia come un vichingo, l’altro bruno, coi baffi a uncino. Erano entrambi tatuati per tutta la lunghezza delle braccia muscolose, che sporgevano nude dai giacchetti imbottiti. Quelle braccia incise d’azzurro e incuranti del freddo avevano un che di felino, di non addomesticato. Vicino all’entrata c’era un vecchio col naso paonazzo e lo sguardo malevolo, seduto davanti a un boccale di birra vuoto.
L’uomo e la donna uscirono insieme e la nebbia li avvolse, come un’ottusità del pensiero. L’uomo perse di nuovo la socievolezza e nessuno dei due disse più nulla finché si salutarono davanti ad una casa-palafitta vicino al molo del porto. “Per tornare alla pensione, segui la strada rettilinea che costeggia la spiaggia. Tornerò fra due ore.”
La donna si allontanò sovrappensiero. Non temeva la solitudine della strada. Era quasi contenta di essere sola. La nebbia e il buio non la rattristavano. C’era qualcosa di speciale in quel brutto tempo, un dolce irretimento dei sensi. La nebbia impenetrabile diceva agli uomini e alle cose: “Dormi! Riposati!” Il sole domattina avrebbe gridato: “Alzati! Svegliati!” La donna non trovava deprimente il maltempo. Era una forza maggiore da assecondare, non da contrastare. Il suo compagno, invece, non ne accettava il dominio. Non voleva riposare quando il buio lo costringeva, o alzarsi quando il giorno lo chiamava con i suoi rumori. Voleva seguire un
ritmo proprio. Adeguare il tempo ai propri umori. Ma il mare e il cielo non si adeguavano.
L’uomo doveva arrendersi. O soccombere, come Achab. La donna camminava dal porto verso un limbo denso di vapori d’acqua marina. Melville era stato qui e aveva fatto camminare Ishmael attraverso questi banchi di nebbia, incontro al suo destino.
Raggiunta la pensione, la donna salì in camera. Era bello starsene a letto con quel tempo. Accese la lampada a muro accanto al letto. Si spogliò e s’infilò sotto le coperte pensando di dormire, ma gli occhi si posarono sulla lampada accesa. Sul fondo bianco del paralume c’era, stampata in azzurro, l’immagine di un veliero sul mare. Il cielo e il mare sembravano infiniti, in quel triangolo di colore, le vele alte e gonfie della nave evocavano i pirati, le prime scoperte e avventure sui mari.
Cacciar balene allora voleva dire mesi di viaggio sull’oceano aperto, senza la certezza di toccare terra sani e salvi. Che cosa provavano i marinai per tutto quel tempo passato in costrizione? Senza poter far nulla, come in una prigione, o un convento galleggiante, aspettando il trascorrere dei giorni e delle notti, come un trapasso, un purgatorio fatto dell’orizzonte sempre uguale di cielo e mare.
L’uomo rientrò verso mezzanotte e le scarpe umide fecero scricchiolare il pavimento. La donna non si svegliò, persa nelle nebbie dei suoi sogni. Sognò che l’uomo se n’era andato, lasciandola sola. Quando il sogno finì era già mattino. Le due finestre davanti al letto svegliarono gli ospiti con un ricamo di rami, cielo e sole. Di là dalla strada ora si vedeva l’oceano, qualche barca dondolante ancorata davanti alla breve spiaggia.
L’uomo e la donna si vestirono in fretta e uscirono. L’uomo aveva con sé una borsa nera e portava a tracolla una grossa macchina fotografica. Con passo rapido percorsero la strada dritta che conduceva al porto. C’era ancora della nebbia sospesa tra le case. La distesa azzurra era libera dai vapori e risplendeva come argento fuso nell’alba.
All’attracco del molo attendeva un peschereccio con i marinai indaffarati intorno alle gomene. L’uomo li salutò con la mano, passò loro la borsa e saltò deciso dentro l’imbarcazione. La donna era rimasta indietro sul molo, incerta, a guardare il dondolio della carena. Un membro dell’equipaggio si fece avanti e allungò la mano. “Forza! Non guardi sotto. Guardi dove mette il piede.” La donna saltò.
Sull’acqua era più freddo che sulla terraferma. La donna entrò in cabina dove era riunita la maggior parte del personale di bordo. Stavano osservando una carta marina e il capitano illustrava su un monitor alcune fasi dell’operazione che sarebbe fra poco iniziata. Altre apparecchiature, radar e sonar, occupavano la stanza. Alle pareti pendevano tavole illustrate con tutti i tipi di cetacei che popolano l’alto Atlantico. Il marinaio che l’aveva aiutata a salire a bordo porse alla donna una pasticca bianca. “È per il mal di mare,” disse. “C’è una perturbazione che sale dalle Bermuda e al largo farà mare mosso.”
L’uomo con la macchina fotografica sempre a tracolla discuteva col capitano. Passò ancora del tempo prima che togliessero gli ormeggi. Il cielo non accennava a coprirsi. La donna si era seduta su una panca del ponte, per godersi lo spettacolo dell’aurora. Avrebbe voluto chiamare il suo compagno perché fotografasse gli splendidi colori sull’acqua, ma ebbe un ripensamento e rimase immobile a guardare l’orizzonte. Il più piccolo movimento, il più piccolo pensiero, l’avrebbero distratta. Voleva invece annullarsi nell’azzurro dell’oceano. Quell’abbandono nella natura non era come l’abbandono per una persona. Non consumava. Rigenerava. Dava un senso di libertà e pace insieme. Col suo compagno non riusciva a sentirsi libera e in pace. Il pensiero di lui la metteva in un continuo stato di agitazione.
L’imbarcazione diede un sobbalzo improvviso e cominciò a muoversi. Stormi di gabbiani si levarono verso prua, volando in cerchio intorno alla barca, come a trattenerla, o a darle il benvenuto sul mare aperto. Le case di legno lungo la riva si fecero pian piano più piccole, e la torre bianca del faro fu l’ultima a sparire dall’orizzonte, insieme al profilo ricurvo di dune e canneti della costa. L’uomo armeggiava con gli obiettivi della sua macchina, completamente assorto. Dall’interno della cabina arrivavano i suoni elettronici degli scandagli acustici.
Dopo un’ora di navigazione costante verso est, l’oceano cominciò a incresparsi. La superficie non interrotta di verde e azzurro cupo si ricamava di crespe sempre più fitte, che incrociavano la barca facendola beccheggiare. Non erano grandi onde, ma la donna sentì subito un malore alla bocca dello stomaco. La pasticca non faceva effetto. Dopo un’altra ora di navigazione verso est, l’imbarcazione puntò a nord-est, tagliando diagonalmente le onde, ora più ampie e profonde. Il sole era sparito dietro una nuvolaglia bassa che da sud si era pian piano estesa su tutto l’orizzonte. La donna cominciò ad avere freddo, e il mal di mare non accennava a diminuire.
Il fotografo la vide pallida e le chiese se si sentiva male. Era la prima volta che le rivolgeva la parola da quando si erano svegliati. “Quando torniamo indietro?” chiese lei. “Dopo che avrò finito il lavoro.” “Mio Dio, non ce la faccio più.”
L’uomo la guardò con l’occhio fisso, inespressivo. Mi sei d’intralcio, pareva dire. Sempre in cerca di attenzioni. Non ti avevo chiesto di venire. La donna distolse lo sguardo, rassegnata a tenere il suo male per sé. L’uomo si allontanò e tornò poco dopo con una busta di plastica bianca. “Per ogni evenienza,” le disse porgendogliela. “Ricordati di guardare verso la linea dell’orizzonte. Non guardare le onde. Guarda un punto fermo.” Sembrava premuroso, o forse voleva compensare la propria freddezza ogni tanto, con un’illusione di intimità.
La donna si mise d’impegno a guardare l’orizzonte, ma la linea immobile e appena curva dell’oceano aumentava il suo senso di nausea, e dovette usare la busta di plastica. Provò a sedersi a poppa, ma le dissero che lì il beccheggio era più forte. Si spostò lentamente a prua. Ora ogni piccolo movimento le causava vertigine. A prua tirava troppo vento e il freddo, sommato al mal di mare, era insopportabile. Si riparò nella cabina, dove stava la maggior parte degli uomini. Appena si sedette, le parve che l’impatto dell’onda si ripercuotesse dal sedile
direttamente sullo stomaco. Accostò subito la busta di plastica.
Appena si riebbe, uscì dalla cabina. Non voleva compagnia in quel momento. Pensò che stare in piedi le avrebbe giovato, perché molleggiandosi sulle caviglie, già infiacchite e tremanti, avrebbe smorzato i contraccolpi delle onde.
Venne un’altra ondata. No, ormai non c’era più sollievo, né in piedi, né seduta. Si strinse a un palo metallico al centro dell’imbarcazione e decise stoicamente di aspettare. Le pareva un secolo da quando erano partiti, e ancora la barca continuava ad avanzare. E il mare a farsi più mosso. E il cielo più scuro. Vedeva seduto a prua l’amico che controllava l’intensità della luce con l’esposimetro, impermeabile a ogni sguardo e insensibile alla potenza degli elementi.
L’orizzonte si distingueva a mala pena, grigio su grigio. La donna aveva lo stomaco vuoto, ormai. Forse i singulti sarebbero finiti. Le girava la testa e si teneva stretta al palo con le mani arrossate e gelide, la busta di plastica penzolante col suo triste peso. Che vacanza orribile. Aveva deciso di divertirsi, di non lasciarsi turbare da risentimenti e paure, ma anche il suo stomaco l’aveva tradita.
A quel punto erano fuori sull’oceano da quattro ore, e ci sarebbe voluto altrettanto per tornare a terra. La donna si sentì mancare le forze. Non avrebbe retto così a lungo. Non avrebbe retto un minuto di più. L’insofferenza del fisico si era così protratta che tutta la sua persona era un unico grande dolore, un unico grande “BASTAAA!”
Come un’eco del suo grido interiore, qualcuno da prua gridò: “Le balene! Le balene!” Tutti accorrevano sui fianchi della barca. Il fotografo saltava qua e là dal palchetto di prora lungo i corrimani dell’imbarcazione come uno stambecco impazzito. Clic. Clic. Clic. Lei non guardava le balene. Guardava l’orizzonte. Avrebbe voluto morire, tanto era insopportabile il senso di nausea, di trappola infinita.
Qualcuno gridò alla sua sinistra. Un ultimo guizzo d’istinto la fece voltare in tempo per vedere un’enorme megattera inabissarsi sotto la carena della barca e poi riemergere d’impeto fuor d’acqua e ricadere, mostrando la incredibile estensione della sua coda. Mentre la coda si immergeva fra mille spruzzi, la donna notò altri dorsi scuri intorno alla barca, e vari sbuffi dagli sfiatatoi. Era un grosso branco quello che avevano finalmente incontrato. Avrebbe voluto affacciarsi anche lei per vedere meglio, ma non osava allontanarsi dal suo palo di tortura. Nessuno faceva più caso a lei.
Il capitano stava puntando il braccio verso il fianco destro dell’imbarcazione. La donna guardò, senza spostare la testa. Una rigida pinna nera tagliava l’acqua in linea retta e si avvicinava allo scafo. Non era difficile immaginare quel che c’era sotto. La pinna dorsale avanzava sicura e lenta nell’acqua. La donna era ipnotizzata da quella presenza animale in caccia. Le balene erano imponenti, ma giocose. La determinazione di quel vorace libero nel suo elemento le fece dimenticare per un attimo il malessere interno. Le sembrò di essere capitata dentro un brutto sogno per sbaglio. Lei, i marinai, la barca, erano fuori posto. Non erano nel proprio elemento. Sarebbe bastata una scrollata del dorso di una balena, o un colpo della sua possente coda per rovesciarli in acqua, in pasto allo squalo.
Tutti erano eccitati a bordo. Per ore avevano inseguito col sonar i gridi acuti delle megattere. Parevano voci di animali minuscoli, ultraterreni. Ora la barca era circondata dai loro immensi dorsi scuri, ed era una miniatura di barca in balia di mostri preistorici. Nessuno sembrava rendersi conto delle sproporzioni. Erano alla mercé di tutti gli elementi, con l’abisso aperto sotto le assi di legno, e la morte violenta in agguato lì accanto.
La donna fissava la scena incredula. Le megattere stavano giocando intorno alla barca. Si inabissavano e poi riemergevano passando sotto la chiglia dell’imbarcazione. La loro mole era tale che ogni movimento sollevava colonne d’acqua e di spruzzi. Per un istante la donna intuì l’indole degli animali. Non erano predatori. Amavano la compagnia e il gioco. Erano addirittura ospitali con gli umani, la specie sterminatrice. Niente risentimenti e rancori sopiti. Non avevano memoria del male, oppure sapevano perdonare come Dio. La donna
contemplava la vitalità dei loro movimenti nell’acqua, il corteggiamento danzante con cui accoglievano la barca, e capì di essere caduta da quello stato di grazia.
Lontano dalla terra degli uomini, nel profondo dell’oceano, esisteva ancora un paradiso di innocenza, inesorabilità e bellezza. Lo squalo in attesa avrebbe compiuto il suo pasto nella totale indifferenza del mondo circostante, e le grida umane sarebbero state soffocate da un’acqua inconsapevole e azzurra.
Così com’erano affiorate all’improvviso dal mare, le megattere scomparvero ad una ad una, inabissandosi. Le divinità marine rientravano alle loro dimore dopo essersi concesse miracolosamente ad occhi mortali. Quando la superficie dell’oceano fu di nuovo uniforme, l’incantesimo era rotto. Il cielo era quasi sgombro delle nubi e anche il mal di mare della donna si era attenuato, come se la turbolenza del tempo e il dolore fossero l’indispensabile iniziazione alle apparizioni.
Il viaggio di ritorno fu breve. La donna aveva dimenticato il suo compagno, assorta con lo sguardo sulle acque lontane. Quando giunsero in vista della costa, lui si avvicinò, toccandole il braccio. La donna era ancora con gli animali, la mente sott’acqua, a immaginare immensi spazi di acque e terre sommerse, libere dal senso umano del tragico e del morale. Risalì lentamente alla superficie e lo riconobbe.
L’uomo era di buon umore, per il lavoro concluso. La guardava apprensivo: dove sei? Perché non parli? La memoria della donna ricordò qualcosa di crudele che l’uomo le aveva fatto. Capì, con un senno antico, che quell’uomo non era il suo elemento, non era la terraferma che lei cercava. Stranamente, non provava rancore, o rabbia. La soluzione era dunque così semplice, così indolore? O quel viaggio in barca aveva sommato tutto il dolore che lei poteva tenere?
In vista del molo d’attracco, la donna si sentì presa da un’improvvisa euforia. Saltò a terra d’un balzo e provò il desiderio di baciare il cemento del molo. Aveva temuto di non riuscire più a tornare indietro. A liberarsi.
Dopo un veloce pasto, rientrarono alla pensione all’imbrunire per ritirare i bagagli. Mentre l’uomo preparava l’auto, la donna scese di corsa verso il tratto di spiaggia che aveva visto la mattina dalla finestra. Le barche erano in secca per la bassa marea, adagiate su un fianco come animali morti. Attendevano, nel loro docile abbandono, l’arrivo della sera, quando l’oceano, nel buio, sarebbe tornato a resuscitarle.
Molto molto bello!!! Anche io, come la donna, sono stata travolta dalla forza innocente della natura
succede anche a noi 🙂
Come una sofferta seduta psicoanalitica le benigne balene, il minaccioso squalo e la furia delle acque attraversano una piccola donna fino a toccare la sua anima.
L’incontro taumaturgico con gli elementi é descritto con tocchi poetici e ci traferisce accanto a lei sulla barca.
Un bellissimo viaggio. Grazie!
davvero! Grazie a te
All’inizio non capivo perché l’uomo e la donna della storia non avessero nomi, e non fossero fisicamente descritti. L’attenzione è tutta sul paesaggio, la nebbia, l’oceano, le balene, che sono i veri protagonisti.
E’ un pellegrinaggio Full Immersion nel territorio di Herman Melville e di Moby Dick, ma qui le balene non uccidono, la barca non affonda, la donna vive un’epifania. Per altre esplorazioni così emozionanti, prenoto il biglietto!
descritto benissimo. Spero novità a presto
sono felice che questo racconto sia piaciuto – è molto piaciuto anche a me, che sono la direttora letterario/iconografica della Rivista
Racconto he ti trascina direttamente nel mezzo dell’oceano. Sembra di essere lì a contatto con la ua forza e la sua bellezza. È un racconto che ti tiene in sospence, potrebbe essere anche un giallo all’inizio. Bellissimo ritmo.