Parto (per le cinque città maggiori) dal confronto fra i voti ottenuti dall’insieme dei candidati al primo turno, e quelli assommati fra i due restati in competizione al ballottaggio.
Lo scarto è molto diverso fra una città e l’altra. E’ molto basso, direi marginale, a Torino e Milano. A Torino si tratta di circa 11.000 voti: da 382 a 371 mila (-2,8%); a Milano di 26.000: da 537 a 511 mila (-4,8%).
A Bologna e Roma la contrazione è più consistente. Nel capoluogo emiliano si scende di poco più di 20 mila voti: da 174 a 153,5 mila (-11,8%); nella capitale la diminuzione percentuale è di -12,2%, 160 mila voti circa, da 1.308.000 a 1.147.000. A Napoli lo scarto è di 125.000; da 403 mila si scende a 278 (-31%).
Evidentemente, a Torino e Milano, la volontà di influire sulla scelta del futuro sindaco è prevalsa sul desiderio di dare il voto ad un candidato in nome della comune “appartenenza”. Man mano che si scende lungo la penisola, questo atteggiamento “laico” e “funzionale” perde progressivamente peso.
Le variazioni nei voti ottenuti dai singoli candidati fra il primo turno e il ballottaggio, consentono di fissare quello che definisco ”indice di espansione” (di qui in avanti “i.e.”); vale a dire la capacità di conquistare elettori in più rispetto a quelli del primo turno.
Con l’eccezione di Lettieri, che ieri ha preso quasi 5 mila voti meno del 5 giugno, tutti gli altri candidati in lizza hanno incrementato i voti raccolti due settimane fa. De Magistris – per concludere su Napoli – ne ha avuti circa 13 mila in più (i.e: 7,6%). E’ il secondo incremento più basso, superato da Fassino che passa da 160 a 168 mila: più ottomila voti circa, i.e. 5,4%.
Troviamo, poi, Parisi (più 28 mila circa, i.e. 12,7%), Giachetti (più 51.000, i.e. 15,7%), Sala (più 40.000 e rotti, i.e. 18%), Merola (più 15.135, i.e. 22%).
Anche per chi non si dedica a questi calcoli, è chiaro che il salto di Raggi a Roma e Appendino a Torino è stato più grande. Infatti, la prima accresce i voti del primo turno di quasi 310.000 (i.e. 67,1%); la seconda fa registrare un i.e. ancora maggiore (71,4%) pari a quasi 85 mila voti: da 118 a 202 mila. Il primo posto in questa classifica non è, tuttavia, di Appendino. A Bologna, pur non vincendo, Borgonzoni passa da 38.807 a 69.660, 30853 voti in più: i.e. 79,5%.
Viene da chiedersi se non abbia avuto un peso il “fattore donna”. Al di là di questo, non c’è dubbio che a Torino e Roma le candidate del M5S, nel ballottaggio, hanno sprigionato una forte capacità di attrazione di nuovi elettori.
Ben distanti, a confronto, gli altri candidati, a cominciare da quelli del PD. A Milano si può capire; il confronto era stato decisamente bipolare già al primo turno, sia Parisi che Sala avevano raccolto quasi tutto il disponibile. E’ bastato un non grande divario dell’i.e. (meno del 5%) a dare la vittoria a Sala per 17.000 voti. A Torino, invece, bacini di potenziale espansione c’erano, sia a sinistra che sul centro, ma la capacità di attrazione di Fassino è stata assai flebile; la più bassa, come abbiamo visto.
I voti in più riversatisi nel ballottaggio sulle tre donne, sono, in grandissima parte, di elettori che il 5 maggio avevano votato candidati di destra. Vale, ovviamente, per la leghista Borgonzoni a Bologna; ma vale anche, e in misura forse maggiore, per le candidate M5S.
Il quadro di Roma (idem a Torino) è di una chiarezza che non ammette obiezioni. Il risultato di Raggi al primo turno è stato tale da far escludere che un numero significativo di elettori propensi a votare M5S non avesse partecipato al voto; da quella parte non erano possibili recuperi di un qualche rilievo.
Gli oltre 300 mila voti in più presi ieri dalla nuova sindaca di Roma sono – se non tutti, quasi – di elettori che il 5 giugno hanno votato Meloni o Marchini; i quali, insieme, raccolsero quasi 415 mila voti.
I risultati di ieri dicono dunque che il M5S si caratterizza come collettore in cui si ritrova, con naturalezza e spontaneità, una parte molto consistente degli elettori della destra. Vedremo quali ne saranno le ripercussioni, sullo stesso M5S, sia a livello amministrativo, sia nella politica più in generale.
Intanto, però, si apre un enorme problema per la destra: si arrende a questo trasloco, fino a rinunciare ad una propria presenza politica significativa? O cerca di riguadagnare coerenza e consistenza? E come?
Un “sub-problema” – anch’esso non piccolo, se non altro per chi ne è investito – si apre anche per la “sinistra-sinistra”. In nessuna delle città qui considerate, essa ha raccolto forze tali da poter impugnare, verso il PD, il “teorema Liguria”: senza me perdi, con me vinci. Soprattutto la seconda parte si è rivelata infondata.
Al di là di questo c’è, però, la domanda più imbarazzante: se il M5S diventa l’alternativa vincente sul PD, grazie al massiccio sostegno di una destra che “trasloca” sotto nuove bandiere, non è affatto agevole trovare argomenti “di sinistra” per motivare una scelta che converga, dalla sponda opposta, sullo stesso obiettivo.