Ogni volta che piove a dirotto, non posso fare a meno di guardare fuori. Le altre mi prendono in giro. Faccio finta di niente. Con il solo aiuto delle dita seguo l’orlo sotto la cucitrice per non avere richiami. L’occhio si perde sulla finestra, dove tambureggiano le gocce colorate.
Neanche mi accorgo della caporeparto che si avvicina. Tossisce. Non mi resta che confessare lo stupore: «It’s raining». Ridono tutte. Non capiscono cosa ci sia di così speciale nella pioggia. Magari credono che al mio paese non piove mai, che davvero è il paese del sole.
Si stupirebbero se dicessi che al mio paese piove nero d’inchiostro; che ci si ripara sotto un cornicione, sotto un balcone, perché ogni sporgenza è provvidenza; che i bambini si stendono sotto le prue delle barche tirate a secco; che è una tetra processione da venerdì santo, la fila di pochi e sparuti ombrelli, tutti neri, su per la salita dell’arso; che gli ombrelli guasti vengono spogliati della tela per cucire lugubri costumi da bagno, così anche le belle giornate portano il lutto.
Quando giunsi a New York, nell’autunno del ‘55, pioveva a dirotto, proprio come adesso.
Durante il tragitto che ci avrebbe portato a casa, Zia Libera mi sedeva accanto con l’aria mesta di chi ha sciupato una bella occasione. Temeva di leggermi in faccia la delusione di quella accoglienza, come se fosse sua la colpa della pioggia insistente.
Io sognavo l’America sin da bambina. Lei vi era sbarcata a soli quattordici anni e aveva nutrito il mio sogno con racconti di luci natalizie e statue di ghiaccio ai ricevimenti. Oltre il finestrino, appena un po’ deformati dalle gocce sul vetro, si rincorrevano ombrelli rossi, gialli, dalle più svariate tinte e fantasie. Sui marciapiedi un continuo baluginio di colori, l’incrociarsi d’ombrelli.
Una festa, quella comune giornata d’autunno a New York.