Diceva in tempi non sospetti (in Ucraina non si combatteva, la guerra fredda sembrava ancora più un gioco delle parti che il terrore cosmico) il saggio Sting in un’epica canzone : “How can I save my little boy from Oppenheimer’s deadly toy?”.
In nuce, il tema del potente film di Christopher Nolan di cui oggi si parla tanto, era già presente. “Oppenheimer” è infatti anche, forse soprattutto,un film sul senso di colpa dello scienziato che più di tutti gli altri contribuì a realizzare la bomba atomica, poi divenuta nella sua versione all’idrogeno l’arma più letale finora conosciuta: la bomba H.
Si sa che tipi siano gli scienziati. Avulsi dal mondo che li circonda, osservato spesso con ingenua arroganza, instabili nei loro rapporti con l’altro sesso, incapaci di districarsi nel grumo di sentimenti ordinari come l’amicizia, la fedeltà, la lealtà. Un po’ come tutti, insomma, verrebbe da dire.
Già, ma loro hanno altro a cui pensare.
J. Robert Oppenheimer lo sapeva da sempre, che il suo ruolo nella storia sarebbe stato, per sempre, quello del Padre della Bomba. L’uomo che sussurrava ad Einstein, Bohr, Heisenberg e Fermi non poteva certo dar retta agli inghippi del Salieri di turno, vale a dire il superburocrate Lewis Strauss (un ottimo Robert Downey Jr.) che tenterà fino all’ultimo di infangarlo e riuscendoci anche, almeno fino all’apparizione nel film di un sorprendente Rami Malek, nel ruolo del giovane fisico David Hill.
Lo scienziato e il duro ma leale generale Groves (quanto è ingrassato Matt Damon!) mettono su, insieme a un manipolo di teste brillanti e irrequiete, il leggendario laboratorio supersegreto di Los Alamos, dove tra mille contrasti arrivano al countdown di Trinity, primo test atomico della storia: fissione e scissione al plutonio, all’alba del 16 luglio 1945: una delle più belle sequenze del film. Seguiranno Hiroshima e Nagasaki, coi loro 200. 000 morti, l’orrore degli effetti collaterali e la fine della seconda guerra mondiale, fermamente voluta dal presidente Truman (un beffardo Gary Oldman), e l’inizio di un nuovo mondo fondato sul terrore dell’equilibrio atomico.
Bel film, non c’è che dire. Tre ore senza tregua, sostenute da grandi attori e attrici e dalla rappresentazione senza veli dei fatti che hanno dato vita alle paure della nostra epoca e da una musica forse più ossessiva del necessario. Cillian Murphy è un Oppenheimer dall’aspetto molto hopperiano, credibile nel suo sguardo freddo e limpido, sempre in bilico tra genio, responsabilità, idee di sinistra incrinate dal dubbio tipico delle grandi menti, sesso e sentimenti a corrente alternata. Come non citare le prove maiuscole di Emily Blunt nella parte di Kitty, moglie d’acciaio e fuoco, e della mia prediletta Florence Pugh in quella della più fragile e sensuale amante Jeanie, le due donne comuniste della vita del genio ebreo di New York.
Difetti? La sensazione che mettendo un gruppo di maschi insieme a far qualcosa di coinvolgente, sia essa la bomba atomica o una finale di calcio, la reazione al successo sia sempre la stessa: birra, urla, bandiere e abbracci virili. Ma forse non è un difetto, è la realtà.
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