Che anno sarà stato? Il ’78, forse. Comunque, quegli anni lì. Ragazzino con fidanzata in giro turistico, organizzato con guida e tutto, della Polonia. Costava poco, ecco il perché della scelta. Cracovia, rossa e bellissima. Varsavia con le sue case chiare, perfette. Ricostruite una ad una.
Oswiecim. Auschwitz.
Una delle tappe del viaggio.
Quel giorno piove, una pioggia leggera, sembra far parte dell’organizzazione del tour, Auschwitz si vede col cielo scuro del pomeriggio. Si parte in pullman, forse da Cracovia la bella, di umore preoccupato. Il sorriso della vacanza, nel pullman, resta appiccicato in faccia, ma lo sguardo tradisce la verità di un’inquietudine che, da dentro, sta salendo lentamente dallo stomaco o da chissà dove.
La scritta. La ferrovia, il passaggio a livello, i sassi grigi, le case lunghe rosso scuro. I camini. Ad Auschwitz c’era la neve, e il fumo saliva lento. Tutto è come ci aspettiamo, come non doveva essere mai. Il museo, i capelli, gli occhiali. I forni. Ma passare da Guccini, da qualche foto confusa in bianco e nero alla realtà del luogo supremo non è ancora possibile per noi, nel 1978. Noi ragazzini in vacanza siamo ancora sulla scena di una grande, tetra, solenne opera teatrale: non può essere vero. Non c’è la gente nuda, ossuta, allucinata, le colonne cenciose e miserabili comandate dai soldati neri coi mitra spianati. Non risuonano gli ordini secchi, perentori dei kapò. Il transfer è impossibile, la mente lo rifiuta. Erige bastioni di sicurezza contro l’orrore.
Alla fine la sera arriva, la pioggia rinforza. E succede.
Succede che al muro di padre Kolbe lo vediamo, il sacrificio. Le raffiche di mitra che falciano quel giusto le sentiamo distintamente, lo vediamo cadere davanti ai mattoni scuri, in quel vicolo cieco. E subito dopo, prima sommesso poi sempre più potente, si leva il coro delle sei milioni di anime perdute. Ora, finalmente, lo sentiamo. E piangiamo.
Giorno della memoria Padre Kolbe Shoah