Si narra che una volta, al di là del Piave, vivesse un cavaliere dal nome per niente Soave. Costui era Teroldego Rotaliano da Montepulciano, ma tutti lo chiamavano Sciachetrà. Il perché, nessuno lo sa.
Col suo cavallo Barbaresco galoppava da molti anni sulla Sassicaia, Sforzato da mille affanni. Si dirigeva verso Est! Est!! Est!!! nelle nebbie del primo Matino. Superò un Pinot Verdicchio, sentì perfino le grida di un Gabiano Marino.
Sciachetrà fuggiva da una Controguerra che lo opponeva a un Negroamaro. Il Morellino (di Scansano) in questione, era un uomo Primitivo che viveva in un Faro.
Il Morellino dai compagni era detto Brachetto poiché era così sensibile e Cortese che Parrina una donna. Infatti pianse una Lacrima di Morro quando Sciachetrà gli sfuggì per una spanna.
Sciachetrà ormai era lontano quando cantò Vittoria, esclamò tra il Brusco e il Lambrusco: «Sangue di Giuda (dell’oltrepò pavese)!» col suo volto corrusco. «Il Brunello non sa che io non sono un Vinsanto, ma neanche un leone! Sono uno che Bramaterra, non posso perder tempo con questa controguerra!». Insomma s’era fatto il sangue Amarone.
Brachetto, il Nero d’Avola, intanto si faceva molti Chianti e non mangiava mai, era diventato Prosecco, e proprio in quegli istanti sentiva in cuor suo la famosa frase Non di Solopaca vivrà l’uomo.
Egli stava lì sul Vesuvio e guardava il Cerasuolo, il suo volto Conero risaltava nel Nebbiolo, allora urlò con quanto Fiano aveva in Cori: «Sciachetrà! Sei un Pornassio! Pagadebit! E che Zagarolo! Io non ti Tocai, ma ti giuro, non passerà la Vernaccia che ti troverò!» Poi si tirò su il Copertino e rimase inMoscato. E in attesa restò.