Outsider

L’outsider è un saggio del 1956, lodevolmente ripubblicato da Edizioni Atlantide, di Colin Wilson. Lo stesso autore, che prima viveva volontariamente da outsider e dopo si dedicherà soprattutto a volumi di esoterismo, rimase sorpreso e travolto dall’esito del suo testo, coronando il destino agognato dai tanti protagonisti del volume.

Barbusse, Keats, D.H.Lawrence, Kierkegaard, Hume, Sartre, Eliot, Camus, Hemingway, Joyce, Hesse, Schopenauer, Van Gogh, Nijinsky, James, Kafka, Nietzsche, Blake, Dostoevskyi, Tolstoj, solo per nominare i più celebri, sono indagati dalla prospettiva del concetto appunto di “outsider”, come un filo rosso che attraversa la letteratura del ventesimo secolo.

Diverse biografie, sorprendenti analisi delle opere si intrecciano per approfondire questa figura: solitario, frustrato, nevrotico, genio, pazzo santo? Sicuramente hanno tutti in comune la capacità di muovere alla società l’accusa di non saper gestire né conoscere i suoi istinti; sanno vedere più in profondità, scorgendo dietro le apparenze borghesi un mondo non razionale dove la verità deve essere detta a tutti i costi. Costi che variano indubbiamente molto a seconda del personaggio trattato, ma che hanno tutti a che fare con la non accettazione di una vita comunemente vissuta, quella degli “uomini vuoti”, contro una qualche forma di intuizione di cosa sia invece la libertà.

Comune a tutti loro un certo senso di irrealtà, che a volte li sradica dalla vita in una sorta di sogno, alla ricerca della “vera vita come unico valore” che si può attingere trascendendo i limiti personali. Un atteggiamento che permetta di prendere l’esistenza di petto per realizzarsi appieno, come il lupo della steppa, a contatto con la propria natura più istintuale.Il punto centrale è conoscere se stessi, anche se a volte le contraddizioni e le tensioni con la società sono tali che si vorrebbe solo allontanarsi e riposare.

Ogni outsider è dunque una sorta di profeta in divenire che sovente vede troppo e troppo lontano, ossessionato da dolore e morte, a volte da un pesante senso di inferiorità che lo fa vivere come un angelo caduto, al limite dell’alienazione mentale, gravato da un forte senso del tragico, imprigionato dal rifiuto giansenistico per il mondo, pieno di dolore per la superficialità altrui, che vede però la creazione come unico veicolo di salute mentale, in totale coerenza con la propria vita.

Ma come cessare di essere un outsider? Come sfuggire al ritmo di un’esistenza automatizzata? Il suicidio non è la risposta come non lo è la follia, il paradiso è irrilevante e forse la risposta resta per tutti in una maggior vita, sempre più addentro nel divenire uomo. Per alcuni è esilio e purificazione contro gli standard occidentali, per molti la fatica del vivere si fa intollerabile camicia di fuoco, ma resta spazio per visionari che vedano il mondo in maniera positiva conoscendosi meglio, elaborando una disciplina contro la debolezza e la propria alienazione, o fuggendo come Zarathustra nella solitudine, ma evitando la maledizione della noia.

L’assioma è cercare una propria fede, diversa dalla media, fondata sulla libertà, poiché la schiavitù è il peggiore dei mali, liberandosi dalle convenzioni come Prometeo, definito il primo e più possente outsider.

Diverse le variabili che marcano il sottile confine tra l’autorealizzazione e la follia: primo tra tutti il saper credere e percepire la propria esistenza come necessaria, poi una buona dose di appetito per la vita, la capacità di aver fede in soluzioni esistenziali non razionalmente prevedibili, ma che allontanino dall’inerzia, saper provare emozioni forti, essere in contatto con il corpo e “lodare nonostante tutto”.

Perché ogni grande outsider è un visionario, che vede ogni problema come un problema di autoespressione e che sa, con Rilke, trovare sempre un modo per “celebrare tuttavia le cose”, seguendo la propria luce interiore, unica e di irripetibile valore.

Colin Wilson, L’outsider – ed. Atlantide pp 400 € 35

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