Appena si faceva stagione, salivano i contadini, baldanza di dialetto o faticato italiano, gli stessi che d’inverno portavano lepri e fagiani dal sentore pungente per le cene dei grandi, conigli acefali, che lo spavento ti tallonava anche a notte, faraone con le zampe a bouquet mulinanti.
Ma adesso la bambina ombrosa si schiude alla contentezza: sono cose serene, dolci, tonde. Uova, piselli da giocarci mettendoli a cerchio sul piatto, doppio zucchero mangiarli crudi e in segreto.
Ma più di tutto le ciliegie maggiaiole, alfieri della liberazione dai banchi, del mare, del compleanno alle idi di giugno; l’abito nell’inevitabile losso, carré a punto smock, magiostrina con un piccolo serto di margherite di campo e amarene laccate.
Ciliegie perfette, compiute, eraclitee. Sangue buffo di carnevale, buono da tingere il muso al gatto. Sangue del peccato, sangue del Crocifisso, come nella Madonna di Tiziano.
Nocciolo è scarto e principio di nuova vita.
Alla bambina cresciuta raccontarono che il nonno, insonne e bislacco, intonasse Reginella, pedalando lungo gli argini d’ovatta nebbiosa, cardillo in cajola nella sua perpetua saudade degli anni da studente a Portici. E vivere di pane, frutti a cuore e baci le sembrò subito una lucente promessa, un auspicio che il suo inviso nome, Antonella, rimasse con quello della ragazza dal cappello di rose.
Novecento, anzi nove anni fa, nella neve d’ippocastani del viale a squadra, decisi d’inventarmi una passione, perché a maggio è indecente essere gonfi di felicità come una marasca solo per una casa nuova dalle pareti colorate, stile Miami, bianchi gli infissi.
Solo perché è successo di specchiarti adatta, compiuta e, cretina, allora ti aspetti destino e umanità chinati a riverenza.
L’amore che mi ritagliai a mo’ di bambola di carta era un uomo di potere, tutto certezze, elativi, horror vacui. Il mio estroflesso, ipercinetico ossimoro. «Procedi per sottrazione», ci provavo, applaudita e disattesa.
La vita da politico è un battere e levare di velocità e pause viscose. Aveva una SLK cabrio e pessimi gemelli come soli di lapislazzuli, io portavo una fusciacca a tutela della nuca e i «ma che c’entri, tu?» dei pochi a sapere, sospesi come le visciole alle orecchie della bimba che fui.
«Mi fai ridere», sbigottiva ancor più che al mio innaffiare silenzio e solitudine. Gli alberghi delle ore liete, Roma e di nuovo Roma, anche con il timer; giorni e sensi colmi, uno scialle scarlatto di Valentino che chissà dove lo tsunami avrà spiaggiato.
La mia vesta scullata era impressa a ciliegie, un bordo di pizzo tinta oro stanco, coturni come bisce di lava che mai più potrei calzare, ma lui ne gioiva, e io sorridevo alla vita.
Ciliegie, anzi duroni smunti e acquosi, li comprava al super l’autista: su e giù per il collegio bisogna trottare, si pranza solo per rappresentanza. Spartivamo il cartoccio rasposo in tre, l’uomo mandava in parabola i noccioli dal finestrino, io, ostentando, ne facevo caramelle Baratti nei kleenex, che inzeppavano la borsa vermiglia dal manico di bambù.
Ciliegie e glicine. Era la primavera del Bacio sulla bocca.
«Bella, che c’importa del mondo?» mi accoglieva istrionico, da giurare che si rivendesse le parole insegnate, eppure di certo Fossati le aveva composte solo perché abbracciassi le sue eterne, quasi sempre improbabili giacche, perdonandolo senza neppure frugargli nelle tasche.
Ben poco è transeunte quanto il tempo delle ciliegie, ci disillude la canzone popolare francese che fu inno della Commune. E neppure altrettanto trionfante e ostinato, però: «il tempo delle ciliegie lo ameremo sempre, conservando nel cuore una ferita aperta», lo ameremo come Reginella volata via, intrecciando fra ricordo e presente scale di piccioli e di «distrattamente pienze a me».