Ero appena arrivata in una scuola nuova, ero giovane, viaggiavo con la mia Polo bianca sempre di corsa. Il figlio piccolo, la casa, mille speranze e già tante sconfitte. Non vedevo, non sentivo ragione, combattevo sognando.
Una preside tutta di un pezzo (non ne ho trovate più molte) mi volle conoscere. Mi informò: «È una classe difficile, non si preoccupi, lavori e ce la farà. Sono andate via due supplenti ma confido in lei».
La scuola era grande, la forma di un carcere: aule affacciate su un corridoio sospeso su più piani. Conobbi i ragazzi. All’inizio furono loro a studiarmi, ma io in breve li coinvolsi. Ero carina, vivace, preparata. Li trascinai con me.
A un tratto entrò Paola. Alta e grossa, si dondolava avanti e indietro e sorrideva sempre. Con lei c’era Marisa, la sua assistente. Mi corse incontro, ero alla cattedra. Mi afferrò il collo, le braccia e mi strinse in un abbraccio forsennato. Aveva il suo posto vicino a me, ma non riusciva a stare ferma, correva fra i compagni e parlava parlava, poi improvvisamente il silenzio e una fuga. Via via via! Tornava all’improvviso cantando, Laura Pausini dei primi tempi era la sua preferita. Una memoria di ferro e una voce forte e cupa. Una bella voce. Allora era felice e i baci per me erano delicati.
Restai con loro, con lei, un anno intero. Feci di tutto, loro mi seguivano e mai mi fecero male. Lei mi voleva bene, un bene intenso e possessivo. Se mancavo un giorno urlava e si arrabbiava. Diventava feroce. A fine giugno ci salutammo. Pianti, abbracci, fiori, biglietti coi saluti, i disegni da non buttare. Paola mi scrisse qualcosa con la sua grafia scomposta, forse un arrivederci. Fece tutto da sola. Lei sapeva che sarei ritornata a settembre e così si calmò. Viveva con la nonna, la madre non era in grado di accudirla, il padre scomparso.
Ma io non tornai. Altra scuola, altri viaggi, altre storie.
A Natale dell’anno dopo squillò il telefono: era Paola. La riconobbi immediatamente, provai uno stupore, una commozione, li trattenni in me. Lei era tranquilla. Io ero quella dell’anno prima in cuor suo, nessun imbarazzo; mi chiese di tutta la mia famiglia, cantò, mi disse che mi aspettava e presto. Io fui sincera, le raccontai che insegnavo altrove e che non si poteva altrimenti, ma non mi ascoltò. Non mi volle sentire però capì benissimo.
Così per molti e molti Natali la sua telefonata. Mio figlio piccolo, sempre piccolo, per lei non era cresciuto. Io uguale ad allora. Lei a cucire dalle suore, la sua grande nonna a prendersene cura. Paoletta il tempo passa, è andato ma tu e io siamo le stesse.