Cominciò a ricevere quegli strani biglietti in un giorno di pioggia.
Stava rientrando a casa, dopo un pomeriggio trascorso in biblioteca a fare ricerche. Le strade erano lucide di quel piovasco che par sporcare cose e persone, più che pulire l’aria. Era stanco, la vista appannata per lo sforzo di leggere quelle righe sbiadite, quelle lettere raggrinzite vergate tanti secoli prima. Era stanco, ma anche contento: gli piaceva quel lavoro oscuro, quelle pagine da accarezzare, quelle parole da interpretare, quei testi da ricostruire.
“Ehi tu, imbecille! Guarda dove vai invece di stare col naso all’aria” si sentì apostrofare improvvisamente. In effetti, col naso all’aria non stava, ma l’ombrello nero con cui si riparava gli aveva impedito di accorgersi di un omone che veniva dalla parte opposta alla sua e con cui si era scontrato. L’omone lo spintonò bruscamente, facendolo vacillare; per non perdere l’equilibrio, si appoggiò a un cassonetto dell’immondizia che stava al bordo della strada, e fu in quel momento che (non seppe mai in che maniera) si ritrovò in mano il primo bigliettino:“Spieghi incognite muffe”, vi lesse. “Ma che è? Che significa?” si chiese sbalordito, domandandosi se, per caso, fosse stato l’omone a mettergli tra le dita quel pezzo di carta o se fosse stato appoggiato al cassonetto. Gli balenò la folle idea che fosse effettivamente rivolto a lui e che si riferisse al suo lavoro. Poi si rese conto dell’assurdità della cosa, sorrise e si sbarazzò, appallottolandolo, del biglietto, che finì a galleggiare malinconicamente in una pozzanghera.
Il secondo biglietto coincise con un lavoro davvero interessante che stava completando in quei giorni.
Aveva ritrovato un manoscritto molto raro, in cui un monaco viaggiatore descriveva con dovizia di particolari la vita pubblica e privata dei Mandarini cinesi. L’interpretazione critica e la ricostruzione filologica lo stavano appassionando come non mai. Chissà se avrebbe mai trovato un editore disposto a pubblicare il suo studio, si domandava. Quella sera, tanto per rimanere in tema, decise di cenare a un ristorantino cinese. Non aveva voglia di tornare a casa: nessuno lo aspettava e il solito piatto pronto da microonde non lo allettava. L’atmosfera del locale, in verità, era un po’ squallida: finto ambiente orientale, finte stampe alle pareti, finti sorrisi della cameriera. Ordinò le solite cose: involtini primavera, riso alla cantonese, pollo alle mandorle, dolcetti della fortuna.
Gli involtini arrivarono abbastanza velocemente. Li tagliò in più pezzi per farli raffreddare e fu lì che trovò il bigliettino: era avvoltolato con cura e, fortunatamente, la salsa di soia non lo aveva macchiato. Incuriosito, lo prese con due dita e lesse “Fife pechinesi? gong muti…”. Con un cenno chiamò la cameriera: “Scusi” si informò gentilmente “Da quando mettete i bigliettini della fortuna negli involtini invece che nei biscotti?”. “Velamente negli involtini non mettiamo nessun biglietto, signole”, rispose sorpresa la ragazza. “E questo cos’è?”, chiese un po’ seccato lo studioso. “Non saplei ploplio, davvelo!”, disse la giovane stringendosi nelle spalle. “Non vollà chiamale l’igiene, velo?”, si allarmò poi. “No, no, niente igiene”, la rassicurò l’uomo, che, però, chiese il conto e se ne andò, un po’ turbato.
Con la notizia che a un convegno di studi si richiedeva un suo intervento proprio sul tema di quel famoso manoscritto del monaco viaggiatore, arrivò il terzo biglietto.
Era felice come un bambino. Non è che avesse spesso motivo di rallegrarsi: dopo tutto, le sue giornate si svolgevano sempre tra quattro mura, fossero queste di casa o di qualche biblioteca. Eppure si sentiva soddisfatto, contento di quel suo muoversi immobile nel tempo.
Volle concedersi una passeggiata nel parco: era tanto che non stava un po’ all’aperto e, anche se faceva un po’ freddino, l’aria era tersa e limpida e il sole gli avrebbe scaldato le ossa. Si fermò a un chiosco. Aveva voglia di un bel gelato alla crema, voluminoso e morbido sulla fragile cialda. I piaceri della vita. Sorrise a se stesso. Chiese all’uomo del chiosco un cono alla vaniglia, fece per pagare, quando gli scivolarono gli spiccioli dalle mani. Si chinò a raccoglierli, ma, proprio sopra la sua scarpa sinistra era posato un pezzo di carta. Non lo guardò, lo mise in tasca, pagò, si allontanò leccando pensoso il gelato, lo terminò continuando a passeggiare, si nettò le labbra e, finalmente, si sedette su una panchina. Qui trasse dalla tasca il biglietto, lo cincischiò tra le dita, quasi soppesandolo, quindi si decise ad aprirlo: “Minchione, festeggi? Pfui!”. Lo ripiegò con cura e rimise in tasca. Restò seduto ancora per un pezzo, tamburellando con le dita sulla panchina, finché l’aria si fece troppo frizzante e si decise ad andarsene.
Era un uomo solitario. In fondo non aveva mai imparato a rapportarsi serenamente con gli altri. Quando doveva agire, chiedere, interpellare, fare… insomma, ogniqualvolta doveva staccarsi dal suo lavoro, dal suo mondo di parole del passato, si sentiva un grande imbranato, una persona del tutto inadeguata. Pagare le bollette era un’impresa cervellotica, parlare al padrone di casa un’imbarazzante questione, comprarsi un vestito un impegno da rimandare sicuramente. E le donne, poi… Non sapeva proprio come comportarsi con loro. Che dire? Che fare? Quali argomenti potevano interessare? Quali serate poteva offrire? Meglio rinunciare, meglio le madonne rinascimentali di quei poeti per i quali curava l’edizione critica dei canzonieri.
Una sera, una delle tante uguale alle altre, proprio mentre infilava la chiave nella cricca, vide infilato tra i battenti della porta un bigliettino. Chissà perché, fu subito certo che non fosse il solito segno del passaggio delle guardie giurate. Quando lo prese, sapeva già trattarsi di uno di quei misteriosi messaggi. Entrò in casa, prima di leggerlo. Si tolse la giacca, andò in cucina, prese un cartoccio di vino aperto da molti giorni e, incurante del sapore disgustoso, se ne versò un bicchiere, che buttò giù in un sorso. Prese quindi il biglietto, lo spiegò e lesse: “Sfuggi impoetiche ninfe?”. Lo lisciò, lo mise da parte, apparecchiò per sé (e per chi altri?), tirò fuori dal frigo il prosciutto e il formaggio avanzati, li mise nel piatto, si sedette. Allontanò con delicatezza il piatto, incrociò le braccia sul tavolo, vi appoggiò la testa e, senza motivo, pianse compostamente.
Era diventato distratto. Lui, così meticoloso nel suo lavoro, così concentrato nello studio, stava per ore con lo sguardo fisso sulle pagine, senza vederle. Anche adesso, in biblioteca: non faceva che pensare a quei biglietti. Cosa significavano? Perché li riceveva? Da dove provenivano? Sicuramente era uno scherzo. Certamente qualcuno voleva burlarsi di lui. Era sempre stato una persona razionale. Perché ora si sentiva rabbrividire, come se chissà quali misteri si celassero dietro quelle parole?
Quelle parole. Quelle parole. E pensare che lui, con le parole, ci campava!
D’un tratto ebbe un’intuizione: scrisse su un foglio i testi dei biglietti che aveva trovato. Li mise uno di seguito all’altro, in colonna.
Spieghi incognite muffe
Fife pechinesi? gong muti…
Minchione, festeggi? Pfui!
Sfuggi impoetiche ninfe?
Ci impiegò solo un’ora per venirne a capo. Erano anagrammi. Tutti di una stessa frase: Fuggi finché sei in tempo.
Restituì con calma alla bibliotecaria il tomo che stava analizzando. Ringraziò con la consueta cortesia. Si infilò il cappotto. Uscì dalla biblioteca.
Nessuno lo vide più.