Corro, come forsennata, con lo zaino e una sporta
Verso l’8 che mi porta forse in tempo per il treno pendolare
E alla stazione vedo con me sciamare stranieri stanchi, lavoratori
Che del viaggio di ritorno sono i principali fruitori.
L’emettitrice non funziona e l’obliteratrice non funziona
E quando giungo al binario dei treni sugli schermi non c’è traccia di destinazioni
Ma solo il martellare pubblicitario e copre la voce che annuncia ritardi e cancellazioni.
Il ritardo del mio treno è il tempo del mio tragitto, e furiosa, le panchine occupate,
cammino su e giù, senza pace. Ne arriva uno e quasi lo prendo, poi mi accorgo e scendo.
Riparte pieno come un uovo ma non c’è nulla di nuovo in questa tratta, stretti l’uno all’altro e la vita va in vacca.
Arriva finalmente il mio, e mi metto in carrozza, su un treno fintamente moderno,
mi informa di temperatura e velocità, ma non delle fermate, che nel buio che si è fatto, bisogna indovinare al tatto.
Ogni carrozza ha i suoi gradi, nella mia si gela e in quella dopo si suda, altro che Tav in val di susa
E i sedili sono a caso sporchi, molli, fortunati, i cestini storti, il mio stracolmo e puzzolente, cambio posto ma non fa niente.
Entro in bagno e ristagna l’odore dell’urina, una pozza sotto i piedi e le pareti scarabocchiate, meno male mancano due fermate.
Passate le località di risparmio negli affitti o di villeggiatura, il treno ora è vuoto e fa paura essere donna senza misura.
Alla fine scendo alla stazione giusta, per intuito e memoria, perché ho una storia che mi ricorda la cancellata blu.
Quanto tempo impiegato in più, ho saltato la cena, ma valeva la pena di capire che questo paese va a morire.