Roberto Calasso incontrò Georges Simenon nel 1982, a Losanna. Difficile immaginare due personalità più diverse. Il raffinato editore che aveva introdotto in Italia la conoscenza dei capolavori della cultura mitteleuropea, suscitando non poche perplessità in un panorama intellettuale ancora fortemente improntato dal sospetto nei confronti di una letteratura considerata “decadente”, quando non para-fascista (per non parlare della storica edizione delle opere di Nietzsche, o del sospetto occhieggiare allo gnosticismo). L’autore dalle centinaia di milioni di copie vendute, l’inventore del Commissario Maigret (di “gialli”!), l’uomo orgoglioso delle proprie diecimila avventure sessuali. Eppure entrambi dimostrarono di avere l’occhio lungo. Simenon, che si rese conto di essere stato progressivamente emarginato dal proprio storico editore italiano, Mondadori, che ormai stancamente ripubblicava unicamente le inchieste del Commissario, rinunciando ai romanzi-romanzi, accantonando il progetto di pubblicazione dell’opera omnia. Calasso, consapevole della grandezza assoluta dello scrittore, e forse anche della possibilità di un nuovo clamoroso successo editoriale.
Bisognerà però attendere il 1985, e, probabilmente, l’intermediazione di Federico Fellini, per il primo titolo simenoniano pubblicato da Adelphi, quella “Lettera a mia madre” che Mondadori aveva respinto ritenendolo “troppo corto” (“Rifiutare un Simenon non si dà”, commenterà anni dopo Calasso). Il 1993 per il primo Maigret.
Da allora Simenon è divenuto una delle colonne portanti dell’Adelphi, con la pubblicazione dell’intero corpus dei Maigret, di gran parte dei romanzi duri (fra cui diversi inediti per il pubblico italiano), di svariate interessanti raccolte giornalistiche.
Soprattutto, l’autorevolezza e la cura delle pubblicazioni adelphiane hanno definitivamente sdoganato Simenon da quell’etichetta di autore “popolare” che ancora troppo spesso pesa come un giudizio inappellabile nei confronti di chi ha avuto la capacità di scrivere molto, e di vendere ancor più, quasi che la quantità, e la fama, per non parlare del vile denaro, siano di per se stesse indice di volgarità. Lo hanno definitivamente sottratto, non solo in Italia, all’ostracismo di gran parte della classe intellettuale.
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