New York, dicembre 1976. Al diciottesimo piano del 12 di 8th-Avenue un uomo ha appena finito di installare una lavastoviglie.
– Sono 23 $ e 50 con la chiamata.
– Tenga pure il resto. Permette una domanda? Era lei che suonava al Metropolitan ieri sera?
– Sì, ho debuttato con “Einstein on the beach”.
– Ma certo, lei è Philip Glass! Un musicista come lei adesso non dovrebbe trovarsi nella mia cucina.
– Vivo per la musica, ma la musica non mi fa vivere. Fino a qualche tempo fa facevo anche il taxista.
– Arte e povertà sono un binomio storico. Lei ha illustri predecessori.
– Coreografi e ballerini se la passano peggio.
– A proposito come si chiama il regista che la affianca?
– Bob, Bob Wilson. E’ un vecchio amico
– Mai sentito nominare qua a New York. Mi auguro di incontrarla presto in altri panni.
– Lo spero.
– Arrivederla mister Glass, anzi a risentirla.
Philip lascia l’appartamento e si incammina, gonfio di pensieri, verso Central Park West. Cerca l’entrata della sotterranea a Columbus Circle, ma la sua attenzione è fissata sull’incontro appena concluso. Pensa ai suoi anni parigini con madame Boulanger. Ai severi giudizi della celebre insegnante. Pensa alle prime composizioni “classiche” distrutte per spazzare via ogni traccia delle origini accademiche, pensa alle ore di studio alla Juilliard, ai lampi ispiratori di Darius Milhaud, al suo viaggio in India, ai magici monesis del sitar di Ravi, all’incontro con il Dalai Lama, alla conversione buddista. Non capisce cosa c’entri tutto questo col trasportare elettrodomestici. Non sa, e non immagina, che quelle esperienze gli permetteranno di comporre decine di colonne sonore, quartetti, opere e sinfonie. Philip entra nella metropolitana. Sotto la luce artificiale degli inferi urbani risuonano, nella sua mente, le feroci critiche dei Musicisti contemporanei: “quella non è musica, è tutta uguale, sono capaci a scriverla anche i bambini, è noiosa e ripetitiva“… e se avessero ragione? L’occhio cade su un cartello nero, uno di quelli che si usano per coprire la pubblicità scaduta. È pieno di segni fatti con il gessetto bianco. Linee semplici e minimaliste: un omino carponi, un cane che abbaia, una piramide.
Sembrano il gioco di un bambino. Non può fare a meno di osservarli: “così potrei disegnare pure io che sono negato”, pensa.
Philip non sa che sta guardando le prime opere di Keith Haring.
Questa, però, è un’altra storia.