Mi sono truccata in autobus, catturando ben bene l’attenzione dei tre bambini. Poi, quando ho visto che pendevano dalla mie labbra – aspettavano solo la prossima passata di mascara, forse per prendermi in giro perché lo avevo messo male – ho tirato fuori il mio Kafka e mi sono messa a leggere.
Il più piccolo tra loro si è schiarito la voce e in silenzio, con una serie di segni con le mani rafforzati da un ben scandito labiale, ha chiesto alle sorelle: C-O-S-A È P-R-O-C-E-S-S-O? La più grande, con la devozione di una piccola mammina (del tutto ignorando, giustamente, il padre che nel frattempo indicava fuori dal finestrino, urlando “bambini, guardate: il Colosseo, il Colosseo!) ha spiegato ai fratelli il “processo” – quella cosa che ci vai per non andare in prigione – concetto assai difficile da spiegare solo con i gesti.
Alla mia fermata ho chiuso il libro e, prima di alzarmi, ho salutato i tre bambini senza parole, servendomi delle mani e di quell’alfabeto che conosco bene, perché bambina sono stata anch’io e nemmeno troppo tempo fa. Con mia sorpresa i tre, lontani dal regalarmi la complicità da me sperata, hanno messo su il broncio; la più grande si teneva tra le braccia il piccolino, per consolarlo dell’ingiustizia a cui proprio io – a giudicare dai loro sguardi – li ho sottoposti.
Li ho spiati, ho letto i messaggi segreti che si erano scambiati con le dita, ho rubato i loro gesti, li ho privati dello “status” di bambini comunicando, con il mio insolente modo di fare, che bambini siamo stati tutti e che non serve, di certo, farne un vanto. Mi sono alzata, sempre seguita dai lori sguardi atroci, sull’orlo del pianto e dell’accusa, conscia del fatto che proprio quello fosse il mio Processo, a dir poco kafkiano.
E quando, poi, mi si è chiusa in faccia la porta e non sono potuta scendere alla fermata, con i loro sguardi ancora sul collo – stavolta maligni, tra le risa – ho scoperto che il processo era perso, ormai, ed ero nella mia prigione di adulto nel mondo dei bambini. La porta si è riaperta, alla fermata successiva, e non appena ho toccato la terra con i piedi, l’alfabeto muto l’ho di colpo dimenticato.