Ero uscita nervosa e inutile in una pallida Roma invernale. Non sapevo che fare di me. Lo Smartphone mi ballava in tasca.
Luce tesa, freddo, poca gente in piazza del Popolo. Parte di colpo una musica, un ragazzo prende a ballare. Il suono sul momento mi infastidisce, ma il ballo mi piace, ne godo e ne capisco. Mi fermo tra gli astanti, e guardo.
Il ragazzo, il viso truccato, un ciuffo di capelli che gli scendeva da sotto il cappello lungo la guancia, oscillando a ogni suo movimento, danzava una imitazione di Michael Jackson. Era perfetta, i piedi si seguivano implacabili l’uno con l’altro, le mani scattavano improvvise, la testa quasi volava, nel ritmo.
Il ragazzo sconosciuto era in tutto uguale al suo sfortunato modello, ma, diversamente da lui, invece che una turbata e fosca sapienza del male, sprizzava pura felicità e un senso di libertà profonda. Poi, piano piano ha smesso di ballare, ha spento la musica. Si è fatto avvicinare dalle turiste, si è lasciato fotografare con loro, in pose affettuose e giocose. Tutti abbiamo gettato una moneta o due nel cappello, sorridendo.
Era diventato bello e lieto e semplice e vero, il mondo, per un attimo. Avessi avuto lo zoom gli avrei scattato un primo piano, avrei fotografato il viso luccicante nel sogno, lo sguardo inebriato, il sorriso perduto, la gioia di avere un piccolo pubblico intorno a sé. Avrei fermato per sempre la sua coscienza di aver dato e ricevuto una piccola, eterna felicità.