Agosto 1962. Ricordo il suono delle cicale, fuori, nella pineta.
Il giorno che Marilyn Monroe morì ero all’isola d’Elba, ospite, con un gruppo di altri adolescenti, di una famiglia ricca. Ricchissima. Industriali milanesi, neoproprietari di una villona su un cocuzzolo, circondata da una enorme tenuta che guardava il mare – dove il loro yacht galleggiava arrogante. Persone e lussi che ho dimenticato.
Invece la saletta della tv, pigiata di ragazzini e ragazzine, viziatelli e che si credevano vissutissimi, coi codini e i nasi all’insù, o coi primi peli di barba, la ricordo perfettamente. Alla notizia, siamo scoppiati a piangere, come i bambini che ancora eravamo. Volevamo bene a Marilyn, tutti, maschi e femmine senza differenza. Senza sapere perché. Forse noi ragazze con maggiore tenerezza. Era una immagine di femminilità gentile e offesa, di una profondità umana che intuivamo appena. Una sorella maggiore confusa, buffa e disperata: mai fu una rivale, né per le bionde né per le more, né per le bellissime, né per le carine, né per le brutte. Una sorella da proteggere dal dolore che le scavava dentro. Il principe e la ballerina: lei col vestito da sera stazzonato, il rimmel colato. Fragile amica. Non sapevamo nulla dei retroscena, delle sue follie per i bei fratelli Kennedy. L’avremmo di certo perdonata a priori.
La sentivamo presente dentro di noi, come il profumo delle donne che saremmo diventate, come il brivido dei pericoli che avremmo evitato, come il sogno che mai saremmo state, noi, brave ragazze della buona borghesia milanese, beneducate e privilegiate. Ma le nostre certezze si svelarono illusioni, e svanirono. Alcune di noi, le più belle, divennero sogni, e si persero. Destini si compirono in tragedia. Anche fra noi, quel giorno, si celavano piccole Marilyn sconosciute. E’ a loro che dedico questo ricordo.