Pietro e Gregorio

Nel 1979 insegnavo alla IV SCUOLA MEDIA DI RHO, in un edificio senza nome, sostituito da un numero ordinale, cresciuto al di là della ferrovia che divideva il paese dalla campagna. Stava fra prati abbastanza incolti, aveva poche classi, una preside con aspetto abbastanza sporco, gonne abbastanza incolori, golfini del tutto rammendati, capelli grigi e sporchi mal legati e un naso lungo che annusava l’aria alla ricerca degli scolari che si rifiutavano di entrare in classe. Gli scolari erano bambini desiderosi di aria aperta, di giochi, di belle storie, di profumi e cani randagi e disponibili. Gli insegnanti, poco amati dagli scolari, urlavano molto, insegnavano poco, castigavano con inutili note e minacce che scatenavano ilarità.
Pietro era un bambino di 11 anni, cresciuto in una famiglia disattenta ai figli e violenta, incattivita dalla povertà: il padre, un uomo prepotente, spesso in galera per violenza sulla figlia di dodici anni, la madre, incapace di aiutare solo con un sorriso, un po’ di sapone e una merendina i due figli, una donna sopraffatta dal non riuscire ad avere “qualcosa” per sé.
Pietro, undicenne, era piccolo per la sua età, libero di non andare a scuola, di uscire senza essere visto, di essere qualche volta a scuola, come di passaggio.
Avrebbe dovuto frequentare la prima media alla IV Scuola di Rho ma veniva a scuola solo con un cane che aveva trovato per strada e che io, per tenere in classe il bambino, nascondevo sotto la cattedra. Non mi arresi mai, volevo riuscire a trovare qualcosa che trattenesse Pietro in classe, che lo facesse stare con gli altri bambini, qualcosa che potesse farlo parlare di sé, qualcosa che valesse la pena di avere “varie puntate”. Pietro non aveva quaderni né libri, neppure matite per disegnare o penne per scrivere. Una creatura che avrebbe potuto sparire senza dare nell’occhio: così era la scuola di quarant’anni fa, tante lotte e ben scarsi risultati.
In quella classe, per lo più IRRAGGIUNGIBILE dalle parole degli insegnanti, decisi di tentare una cosa quasi folle: cominciai a leggere “La metamorfosi” di Kafka. Forse pazzia, forse disperazione di insegnante che aveva scelto quel lavoro, provai, lentamente, saltando pagine che consideravo difficili, riassumendo certi passaggi. La classe, con Pietro che piano piano era venuto vicino a me e al cane, cominciò a tacere, ascoltando – Gregor Samsa che, da dimenticato essere umano lentamente si trasforma in insetto e viene scopato via, aveva rapito l’attenzione di tutti ma soprattutto di Pietro che, finalmente, mi chiese tante cose su quel povero essere.
Il suo silenzio di dimenticato, era diventato TANTE PAROLE. E Gregorio (così lo chiamava) un essere a cui Pietro non voleva somigliare. Kafka era entrato a far parte della prima media di una scuola senza nome di Rho

 

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