Non sapeva come fosse successo. Non si era accorta di nulla. Ricordava di essere scesa al bar in piazza per comprare la bottiglia di spumante, quello secco, come piaceva a lei. Lo aveva preso ghiacciato perché mancava poco a mezzanotte. Lo avrebbe messo fuori, sul terrazzino che dava sul cortile, per farlo stare freddo.
Forse il tizio pulito e distinto era già dentro il bar, ma lei non l’aveva notato. Invece, passando davanti al piccolo deposito rifiuti da cui uscivano grandi compattatori e puzzo infernale, dove lei accelerava il passo per ritrovare presto l’aria fresca, si era sentita afferrare il braccio da dietro. Ma che cavolo, mi cade la bottiglia, pensò. Poi lo vide. Aveva il fiato pesante e alcolico, mentre le urlava contro: «Non senti che ti sto chiamando? Sei cretina? Sei sorda? E rispondi, forza!»
Lei non capiva nulla. Un po’ la sorpresa, un po’ il fatto che nell’agitazione non riusciva a leggergli le labbra. Cominciò a sentirsi minacciata.
La bottiglia si schiantò sulla strada.
«Allora, sei sorda?» gridò l’uomo di nuovo. Questa volta gli lesse le labbra e Sì, avrebbe voluto dire, sono sorda. Ma tu che cosa vuoi? Cercò di divincolarsi. Lui stringeva forte. La guardava dall’alto in basso. Era grosso più che alto. Cappotto cammello, a doppiopetto. La sciarpa rossa. Giovane, sui trent’anni. La stringeva e intanto la premeva contro uno dei cassoni da cui usciva il terribile fetore della piccola discarica dietro il supermercato del quartiere.
«Sì, sei sorda e pure muta» disse l’uomo. «Cazzo, ma allora ho fatto tombola». La buttò per terra. Le strappò i leggings, le mutande. Aprì il cappotto e le fu sopra. Lei spalancò le labbra. Un urlo panico le usci dalla gola. Lui le diede un pugno in faccia. Ma lì attorno, a quell’ora, non c’era nessuno. Nessuno poteva sentirla.
Fece sforzi sovrumani per tenere le cosce serrate. Era inutile. Più resisteva, più sentiva un male lacerante nella carne. «Ferma, se scalci mi rovini i pantaloni. Sta’ ferma cretina!»
Puzzava di stantio e sudaticcio, di vecchiaia nonostante l’età, di trascuratezza nonostante i begli abiti. Ma gliel’avrebbe fatta pagare a quel bastardo. Non voleva scordare i suoi denti gialli, la bocca carnosa e un po’ femminile, il dolcevita blu. Se solo avesse potuto urlare, per richiamare qualcuno dai palazzi là intorno, dove tutti aspettavano di sparare i loro botti. Anche il suo vicino.
«Vuoi aprire queste gambe? Mi incazzo per davvero adesso, troia! Apri ho detto!»
Un altro pugno. Sentì il corpo diventarle estraneo. A che pensavo… ah, sì. Il vicino. L’anno prima aveva piazzato dei bengala lunghi mezzo metro, e i fuochi, quelli veri, con le micce temporizzate. Erano partiti a mezzanotte esatta, uno dopo l’altro, tutti in fila, uno più enorme e stellato dell’altro, tutti bianchi. Erano quelli che le piacevano di più. Le pareva che tutte le stelle si fossero date appuntamento sopra la città. È passato già un anno, pensò. Tanti desideri, tante aspettative… Sputò sangue e si sentì bagnata tra i capelli. Lui le sbatté il cranio a terra due o tre volte. «Mi hai rotto i coglioni, sordomuta dimmerda! Che hai dentro la testa? Che guardi? Che cazzo guardi?»
Non sono nemmeno riuscita a dargli un calcio, si disse, nemmeno a gridare. Si sentì sollevare. L’uomo la mise in spalla come una pelle vuota. Andò a cercare un cassonetto aperto. Senza guardare la buttò là dentro.
Per una bottiglia di vino, pensò. Una bottiglia da bere da sola, davanti alla Tv, mentre quattro cretini recitavano un conto alla rovescia registrato giorni prima. E adesso era lì, la faccia verso l’alto, a osservare un rettangolo di cielo tutto nero. Vide un’ombra affacciarsi al cassonetto. Qualcuno l’ha visto, qualcuno mi ha visto. L’ombra lasciò cadere un sacco e se ne andò. Lei si pulì la bocca insanguinata. Sentì il dolore della mascella rotta. Cominciò a vedere le stelle. Il rettangolo nero spalancato su di lei era pieno di scie luminose. È mezzanotte, pensò. Un anno finiva e cominciava, mentre lei respirava sangue e immondizia.
Quella guerra fasulla durò almeno un’ora. Poi le stelle divennero più rare. Vide l’ultima passare nel rettangolo, fermarsi al culmine della sua parabola e scendere giù, verso di lei. Scomparve. Di nuovo buio. Capì che sul mondo era sceso il silenzio. Lo stesso che sarebbe sceso su di lei se qualcuno non la tirava via da lì, da quel posto puzzolente e gelato.
Vide due facce nel rettangolo di cielo. Una torcia illuminò qualcosa. Non lei. Qualcosa alla sua destra. Un uomo scavalcò. Scese nel cassonetto senza neanche vederla. Guardava dove la torcia illuminava il sacco abbandonato. L’uomo lo aprì. Ci infilò le mani dentro. Quando le tolse, tra le mani aveva un bimbo. Fu in quel momento che lei si mise a piangere. L’uomo sentì il lamento, si voltò. Lei gli guardò le labbra, nella luce della torcia, e vide che diceva: «Cazzo, ma qui c’è una ragazza.»
Si svegliò all’ospedale. Cercò di spiegare cos’era successo. Chiese di alzarsi. Chiese di andare a vedere il bambino.