Dei libri che ho amato mi rimane nella memoria un’immagine, una polaroid del ricordo. Un cassetto del comò mal chiuso da cui si vedono assorbenti igienici arrotolati è l’immagine che ho di Un angelo alla mia tavola, di Janet Frame. La data che ho appuntato sulla prima pagina del libro dice giugno ‘97. L’ho letto sulle panchine rosse di legno – segno di civiltà ora scomparso – nelle ore di pausa pranzo, quando lavoravo come commessa in una libreria veneziana negli anni dopo la laurea. Un angelo alla mia tavola è un’autobiografia salutare per tutte quelle ragazze incerte tra quello che si è e quello che gli altri vorrebbero si fosse. E l’immagine del cassetto del comò, nella stanza che la giovane Janet occupa mentre insegna in una scuola d’infanzia, condensa la sensazione di inadeguatezza e di difficoltà di chi non trova la sua vita in mezzo agli obblighi e alle convenzioni. Autobiografia e romanzo di formazione: un’infanzia e un’adolescenza povere ma felici sui libri, crescere e trovare impossibile omologarsi, poi l’esistenza rovinata dal manicomio e dagli elettroshock. Ma Janet non si spezza: la letteratura, la poesia, la salva e la fa diventare una donna adulta che vuol far luce su quello che è stato e affronta il passato con uno psichiatra alla ricerca della verità a cui lei vuole guardare in faccia. E la verità sulla sua schizofrenia la rivela il medico sostenendo che avessi davvero bisogno di scrivere, che fosse per me un modo di vivere […] Riguardo all’esortazione che da tutta la vita mi rivolgevano gli altri di «uscire e mescolarmi alla gente», il dottore fu chiaro: la sua prescrizione per la mia vita ideale era che vivessi da sola e scrivessi resistendo, se lo desideravo, alle richieste degli altri di «unirmi a loro».
In altre parole, dal meraviglioso adattamento cinematografico che ne fece Jane Champion nel 1990, se non ha voglia di socializzare, non socializzi.