Mohammad Ali disse: «L’uomo che a cinquant’anni vede il mondo così come lo vedeva quando ne aveva venti ha sprecato trent’anni della sua vita».
Orbene, io a vent’anni ero per il divorzio e l’aborto. Ma davo per scontato che a prepararmi pranzi e cene, a rammendarmi i calzini, ad attaccarmi i bottoni etc. doveva essere mia madre, o mia nonna, e, in futuro, qualora mi fossi sposato, mia moglie. Così vedevo il Mondo. Poi vidi che alcuni amici, a causa di tragedie familiari, dovettero imparare a cucinare e a fare le faccende di casa. Capii che non era per nulla scontato che mia madre o una donna dovessero fare certe cose, e non solo a causa di una disgrazia, ma perché non era giusto.
Ero per l’abrogazione del delitto d’onore e la riforma del diritto di famiglia, ma pensavo che le donne non potevano esercitare talune professioni, perché più deboli, più vulnerabili etc. Poi ho cominciato a ragionare. Se delle donne come Golda Meir e Indira Gandhi potevano guidare i loro governi, anche in circostanze drammatiche come le guerre, se c’erano già donne astronaute, perché non potevano fare le chirurghe, le generali di corpo d’armata, le manager aziendali etc.?
E poi il dramma del Circeo, quelle povere ragazze torturate, stuprate e assassinate, mi fecero riflettere su come parlavamo i miei amici e io delle ragazze. L’unica cosa che ci interessava, in fondo, era andarci a letto. Non che la cosa sia innaturale, ho sempre amato fare sesso, ma da allora capii che il dono che le donne ci fanno scegliendoci come partner per una notte o per tutta la vita merita il massimo rispetto. E gratitudine.
E poi c’era altro. A vent’anni vedevo gli omosessuali come deviati, sfortunati, tutto tranne che “normali”. Mio padre, nato nel 1914, medico positivista, quando taluni suoi amici gli dicevano che sospettavano di avere figli gay, li consigliava di rivolgersi a uno psichiatra. Ma, in quanto positivista si atteneva ai fatti e si aggiornava.
Quando, nel 1973, l’American Psychiatric Association ha introdotto la definizione dell’omosessualità come “variante non patologica del comportamento sessuale”, si fece mandare gli studi relativi da un suo cugino medico che viveva in California. Ci meditò, cercò conferme e alla fine si convinse: gli omosessuali non erano pazienti, l’omofobia non aveva nessuna giustificazione scientifica. Mi spiegò tutto e io capii.
Scollarsi, però, di dosso la polvere tossica accumulata non dalla nascita, ma da un paio di millenni, non era facile. Continuai a fare battute omofobiche, a dire spiritosaggini e a spargere volgari stereotipi. Si faceva per ridere. Ma era un riso sciocco. Mi misi a leggere quello che scriveva Angelo Pezzana, fondatore del primo movimento per i diritti degli omosessuali. Capii quanto ero stupido e, facendo un calcolo statistico, mi resi conto di quanti omosessuali avevo offeso o ferito nella mia vita. E mi vergognai.
No, non vedo il Mondo come lo vedevo a vent’anni, e ne sono felice.