Donna Rosaria sta come una regina al timone del suo gozzo. Accoglie i passeggeri in maniera sbrigativa, li redarguisce perché restino seduti sulle traverse di legno che fungono da sedile. Il biglietto di andata e ritorno costa due euro e lei non rilascia ricevuta. Raccoglie i soldi muovendosi da poppa a prua con la destrezza di un marinaio di lungo corso. Tornata al suo posto di comando arrotola le banconote e le sistema al sicuro nel reggiseno mentre lascia cadere le monete nel gavone ricavato tra le paratie al suo fianco.
La guardo dalla terrazza di Ciro, sul porticciolo all’ombra di Castel dell’Ovo. Il cameriere facendomi accomodare mi ha comunicato che da loro si mangia bene e si paga poco.
«Vorrei una buona pizza»
«Dotto’, non vi preoccupate, ci penso io a voi, ve ne faccio preparare una doc».
Il molo è piccolo e affollato. Si sentono grida e schiamazzi che arrivano da ogni parte. Sembra la piazzetta di un quartiere di mercato dove tutti si conoscono e parlano ad alta voce, anche se sono a un metro di distanza, perché gli altri sentano ciò che hanno da dire. In acqua alcuni ragazzi non più che tredicenni remano su piccole barche da pesca di legname, vecchie di qualche vita passata, e trasportano pure loro turisti e gente del posto a prendere il sole sugli scogli che abbracciano Napoli dal lungomare. Rosaria manovra senza esitazione a marcia indietro e intanto urla alla figlia che sta sul molo di portarle un piatto di spaghetti con le cozze. Non può perdere clienti e mangerà mentre lavora.
Il cameriere torna con la mia pizza doc.
«Dotto’, mangiatela finché è calda».
A pochi metri, su un angolo della banchina, c’è la sede del circolo canottieri Savoia. Tra le barche da pesca malandate della gente comune ormeggiano yacht dal lusso sfrenato. Tre scugnizzi si divertono a tuffarsi dal tetto del ristorante del club nello specchio d’acqua che separa due velieri attraccati. Il più piccolo di loro lo chiamano Fefè e nuota in apnea tra le buste di plastica e l’immondizia come una spigola che fugge all’amo. Da una delle barche si affaccia il proprietario, ha un Rolex d’oro al polso. Fefè riemerge sotto gli occhi dell’uomo che si sporge e gli racconta che anche lui da ragazzo si tuffava da quel tetto. Lo scugnizzo sputa acqua e con ammirazione gli domanda quanto costa la sua barca, senza invidia, giusto per sognare.
La pizza è davvero doc e riesco a mangiarne anche i bordi.
È tardi ed è ora di ripartire.
Sul lungomare Partenope due immigrati si litigano il posto per la bancarella parlando napoletano e accanto a loro c’è Salvatore “Simpatia”, vestito da Pulcinella, che per pochi spicci si lascia fotografare. Risalgo via Santa Lucia, alle spalle del Grand Hotel Vesuvio, dove i ricchi parcheggiano le loro Ferrari, in un vicoletto c’è un palazzo diroccato che non ha più l’intonaco, ma è colorato dalle tovaglie e dai vestiti stesi a ogni balcone. Sul muro c’è scritta una frase conosciuta in tutto il mondo e la vedrei bene anche nei Baci Perugina: “vedi Napoli e poi muori”. Suona un clacson alle mie spalle. Sono al centro della strada a fissare i colori di questa città, i suoi sogni, le sue illusioni. Mi volto e un uomo si affaccia dal finestrino di un’auto.
«Dotto’, ‘o ssaccio ch’è bella a vede’ e che mo putite pure murì, però primma scansateve e faciteme passà».