PRESA PER MANO A KOROGOCHO

Korogocho, baraccopoli di Nairobi. Domenica. Sotto una tettoia di foglie e fango un prete missionario dice messa. Tutto intorno si balla, si canta, si battono le mani. Vero tripudio di suoni e colori: tutto bellissimo. E anche lunghissimo, però. Fa caldo, ho la pressione bassa e poi il jet lag…. Insomma, mi sfilo.
Mi allontano di un centinaio di metri, lungo un sentiero di terra rossa, fino ad una specie di muretto a secco. Mi sdraio all’ombra e chiudo gli occhi.
“Maaa -_riiii – naaa!”
Riapro gli occhi di scatto e la vocina che ha appena pronunciato il mio nome ha il volto di un bambino africano chino su di me, che legge il badge puntato sulla mia t-shirt.
Per niente turbato dal mio soprassalto mi allunga un foglietto con scritto il suo nome.
Farfuglio: “Eddy…?
Una fila di dentini da latte si sganasciano dal ridere a pochi centimetri dalla mia faccia.
Incasso lo smacco come farei con mia nipote che ha cinque anni, più o meno quella che dev’essere la sua età. E Imparo che il suo nome corretto é Adì.
Adì veste un grembiulino azzurro. E’ pulito, ben nutrito. Deve far parte di quei bambini che la comunità dei missionari accoglie, insieme alla madre.
Ad Adì sono simpatica, mi sa. Mette la manina dentro la mia e non la toglie più. Proprio più. Nemmeno quando i nostri palmi cominciano a scivolare di sudore e io istintivamente allento la presa per non dargli fastidio, perché penso che da piccola io col cavolo che tenevo la mia mano nella mano sudata di qualche adulto. Ma lui stringe ancora di più.
Finisce la messa, la gente si sparpaglia, i bambini giocano a rincorrersi e io penso: adesso si staccherà per andare con loro. Invece no.
Mi viene incontro un operatore umanitario e subito intorno a me si accalcano dieci, venti, trenta bambini che vogliono fare una foto. Per un attimo Adì molla la presa, forse per posizionarsi meglio, ma è solo un attimo perché subito sento di nuovo la sua manina nella mia. L’operatore inizia a scattare e io ad ogni scatto premo la manina di Adì, che ricambia la stretta. Solletico il suo palmo con le mie dita e lo sento ridere. Dico “lo sento” perché lui ora appoggia la testa contro la mia pancia e in questo modo anche se guardo avanti, quando ride sento il mio ventre che vibra. Ora incrocio le mie mani sul suo petto e, forse per la sorpresa dell’ abbraccio, sento il suo cuore che inizia a battere forte forte. Allora mi chino, appoggio le mani sulle sue piccole spalle e lo volto verso di me, viso a viso, per completare quell’ abbraccio…
Solo in questo momento mi accorgo che il bambino non è Adì.
Realizzo che nell’attimo in cui Adì aveva lasciato la presa, un’altra manina si era subito infilata nella mia.
Questo non è Adì. Questo è smunto, ha punture d’insetti, croste sulle labbra, gli occhi impastati di materia gialla. I suoi vestiti sono rigidi di sporcizia, i capelli sono grigi di fango. Questo é un bambino di quelli che qui chiamano “randagi”.
Come un gattino cisposo che è sbucato fuori dai bidoni della discarica per trovare cibo… L’avrei preso, l’avrei pulito, l’avrei sfamato, l’avrei curato, poi avrei detto: “Avete visto com’è bello? Sapeste in che condizioni era quando l’ho trovato!”
Un gattino, dico. Non un bambino!
Un bambino no, non lo avrei toccato. Per fare la cosa giusta avrei subito chiamato qualcuno, un dottore, un infermiere, un operatore umanitario, un addetto, un esperto… che ne so!
Ma ormai l’ho toccato.
L’ho tenuto addosso, l’ho sentito ridere contro la mia pancia, ho sentito il suo cuore sotto le mie mani. Restiamo a fissarci negli occhi per il tempo eterno di non più di un secondo ma forse la mia espressione è cambiata, il bambino smette di ridere e d’improvviso scatta all’indietro. Scatto anch’io, in avanti. Preso! Grazie al cielo, preso! Ma lui, proprio come un gattino, si divincola e corre via velocissimo in direzione della fogna a cielo aperto. Coi piedini nudi alza schizzi di fango e liquame. Li alzo anch’io e me ne frego: devo prenderlo! Raggiunge la montagna di lamiere accatastate ed entra in una feritoia stretta, stretta. Mi chino tra gli ammassi guardo, cerco, provo, prego. Chiamo, chiamo ,chiamo…
Ma non lo trovo più.

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