Un carcerato. È in prigione da una vita. Dice a se stesso e a chi ha voglia di ascoltarlo, di essersene scordato il motivo. Mente, naturalmente. Ha ucciso sua madre. Era necessario. Non avrebbe potuto essere libero, mai, con lei in vita. E ora è libero. Più libero qui, in questa piccola cella, che fuori, nel mondo, con lei.
Se solo smettesse di rimboccargli le coperte. Se solo smettesse di dirgli di mettere ordine tra le sue cose. Se solo smettesse di guardarlo con quell’espressione così dolce. Perché dimentica di essere morta?
Il secondino lo conosce da sempre. Quando è arrivato, vent’anni fa (“È una sede provvisoria…”), il matricida c’era già. Conosce i suoi occhi vuoti e persi così come conosce quelli degli altri “ospiti”. Cambiano spesso, ma sono tutti uguali. Può sfogliarli come un catalogo per trovare ferocia, insofferenza, rassegnazione, sfida, furbizia, sofferenza, incredulità, abulia, frenesia…
Gli occhi del sorvegliante sono invece carichi di sonno e di inerzia. Non sanno più illuminarsi né di rabbia, né di comprensione e nemmeno di pazienza. Conta le settimane che lo separano alla fine della sua pena.