A 14 anni mio padre mi diede il primo libro della mia vita: Così parlò Zarathustra. Leggilo come un romanzo, mi disse. Una scelta azzardata e insolita che chiedeva molte domande e altri saperi. A 15 mi appassionai a Freud e soprattutto Jung (senza sapere come poi la psicanalisi sarebbe stata la chiave della mia esistenza). A 16 lessi Le onde di Virginia Woolf perché studiavo letteratura inglese. La Woolf, nei suoi diari, menziona più volte Proust come un riferimento. A 17 ci arrivai. Non potevo più aspettare. Un tuffo e fondali popolati di uomini e donne, salotti, musica, infanzia mi vennero incontro. Ripetevo il tuffo ogni giorno, appena avevo una pausa dal liceo, appena finivo di studiare. E ho continuato per gli anni a venire. Perché Proust necessita disponibilità, attenzione, concentrazione. Nel fondale passavano e abitavano l’amore e il possesso, la gelosia e la mondanità, l’omosessualità velata e quella svelata. Quando seppi che Albertine era in realtà un uomo, capii che non mi sarei fatta chiamare Valerio e neppure che avrei scritto con quel nome e nemmeno avrei amato con quel nome. Proseguivo con i tuffi, talvolta erano immersioni lunghe, finchè diventai maggiorenne e giunsi all’ultimo: Il Tempo Ritrovato. È lì, lì che capii cosa vuol dire creare, cosa c’è dietro, come va fatto, cosa comporta. Il Tempo Ritrovato è una digressione sull’arte, il più affascinante e profondo manuale che sia mai stato scritto. Quando chiusi l’ultima pagina mi si mozzò il respiro. Nulla, che in futuro avessi letto, mi avrebbe portato così in fondo a me stessa. L’animo umano si era infine aperto, l’amore, per cui basta la curva della spalla di Odette, era totale ma vanificato. È stato in quel momento che Proust mi ha sfidato. Dovevo innamorarmi per vivere ciò che lui descriveva, mostrargli che aveva torto nel suo considerarlo illusorio. Molti ma molti decenni dopo lui è davanti a me, e mi risponde ancora, ogni volta che chiedo. E io sono davanti a lui a capo chino, pronta ora a dargli ragione. (Valeria Viganò)
Una Bella Estate degli anni Ottanta, la prof. di Italiano ci consegna – come “compito delle vacanze”- una lista di libri da leggere. Impegnativa e imperativa. Oltre ai soliti italiani Svevo, Pirandello e al Vittorini della Conversazione in Sicilia spiccano Musil e Proust. Non c’è Virginia Woolf. Se ben ricordo non c’è nessuna donna. E questa mancanza non mi colpisce nemmeno. All’epoca non so ancora pensare in termini di genere; mi sembra che esista una sola Letteratura, neutra e “universale”, non sessuata (arriverò solo qualche anno dopo capire quanto sotto le mentite spoglie del neutro si celi la cancellazione del femminile, anche in letteratura). L’intuito mi fa scegliere Proust. Sarà un intuito felice, anzi: gaio. Ho già, a casa, il primo volume, La strada di Swann, nella bella edizione Einaudi PBE e con traduzione di Natalia Ginzburg. Il mio precoce feticismo bibliofilo mi spinge dal mio amico libraio dai capelli rossi, un Cappellaio Matto che mi dà i libri a credito; li pago a rate con la mia paghetta, quando posso. Compro tutta la Recherche. Su Proust, il Guglielmino, manuale di letteratura del Novecento in voga nei Licei dell’epoca, dice molto: madeleine, Bergson, il ricordo sensoriale, la scoperta e la narrazione della soggettività. Non dice, tuttavia, quella che sarà la cifra abbagliante e segreta della sua lettura: l’omosessualità. La cancellazione dai programmi scolastici di grandi donne come Virginia Woolf non ha impedito, a un’adolescente attenta e curiosa, di imbattersi in qualcosa che la riguarda da vicino e che intesserà la sua vita futura.
La Scena di Montjouvain, ne La strada di Swann, preparata musicalmente dai temi iniziali, è il cardine su cui si basano tutti i disvelamenti omosessuali che intessono il cuore della Recherche. E si tratta di due giovani lesbiche che discutono fra loro, anche con termini sessuali espliciti, mentre sono osservate di nascosto dal narratore. A partire dal primo volume, le lesbiche irrompono sulla scena, e la intessono, talora dominandola – come in All’ombra delle fanciulle in fiore – , a dispetto di ogni programma scolastico degli anni Ottanta. Il tutto in una cattedrale incredibile di eco e rimandi interni, di personaggi emblematici della cultura e dell’arte del Novecento, in una vertigine di rimandi estetici – che altro dire? Proust è brivido, è vertigine. La sua dedizione letteraria pervasiva e assoluta colpisce in modo indelebile il mio modo di pensare ed essere, a 17 anni. Anche se non condivido la banalizzazione espressa da volumetti di facile vendita del tipo Come Proust può salvarvi la vita , la mia anima di diciassettenne sa bene che, fra le sabbia e la pineta in un’estate toscana degli anni Ottanta, quei volumi Einaudi le hanno davvero salvato la vita. (Paola Guazzo)