Si comincia a fare sul serio. Il Giro arriva alla stretta finale delle ultime otto tappe e ormai non è più tempo di nascondersi. Chi aspira ad arrivare sul traguardo di Milano con la maglia rosa ben salda sulle spalle deve rompere ogni indugio e lanciare il cuore oltre l’ostacolo, come direbbe chi non scrive per frasi fatte. Tappa ambigua e bipolare quella che parte da Cherasco, città imperiale, fondata da un vicario di Federico II di Svevia. Per i primi centotrenta chilometri si srotola lungo le piatte lande piemontesi toccando Carmagnola, Moncalieri, Torino e Ivrea. Si corre sul velluto, quasi biglie su un tavolo da biliardo. Le alpi si stagliano sullo sfondo come puri dettagli scenografici, nessuno ancora crede che alla fine bisognerà scalarle. Si passa sotto il massiccio e arcigno forte di Bard quando mancano ancora una decina di chilometri alla prima rampa. Si ha ancora il fiato per ragionare se sia vero che tra le mura di quella apparentemente imprendibile fortezza sia davvero rimasto a dimora il misterioso personaggio con la maschera di ferro di cui parlano Dumas e Voltaire. Ma poi si arriva a Verres, col suo castello a forma di dado che dall’alto domina la strada, e proprio lì la tappa cambia volto. Siamo ai piedi del Col de Joux. Da quota 387 si sale, in poco più di venti chilometri, a quota 1640: una salita abbondantemente pedalabile, con una pendenza media solo del sei percento, ma una salita quasi interminabile per chi la affronta con la testa ancora scarica. Nulla, però, dura in eterno. Una volta scollinato si scende a bomba verso Saint Vincent e Châtillon. Prima di lanciarsi ad affrontare la salita finale si può scegliere tra due vie di fuga: fermarsi al casinò per tentare la fortuna alla roulette o imboscarsi in uno qualsiasi dei castelli che circondano l’antico borgo di Tsâteillon (Châtillon in patois valdostano) e cercare di non dare nell’occhio travestendosi da cavaliere inesistente o da visconte dimezzato.
Chi desiste sarà dimenticato, per tutti gli altri è in palio la gloria. Si sale verso i 2001 metri di Cervinia. Un’arrampicata lunghissima, di ben ventisette chilometri, con una pendenza massima del dodici percento. Una salita che macina i corridori uno alla volta e li fagocita lungo il suo percorso. Ai corridori consumati dallo sforzo, poco importa della vetta del Cervino che si specchia nelle acque del Lago Blu. Qui conta soltanto il risultato. L’ultima volta che il Giro salì fin quassù era il 1997: vinse Ivan Gotti, bergamasco di San Pellegrino Terme, che quel giorno conquistò la maglia rosa e la portò fino al traguardo di Milano. Per chi crede alla cabala, occorre dire che anche quell’anno Cervinia era posta all’arrivo della quattordicesima tappa.