Qualche sera fa in fila per il ristorante a Villasimius arriva una bellona che Diletta Leotta spostati. Una statua vivente che tutti e tutte si sono girati ad ammirare – o invidiare. Non un capello fuori posto. Altissima, biondissima, scollatissima, giovanissima. Tutto issima insomma. Anche fidanzatissima. Fidanzato perfettamente abbinabile a lei – fossero entrati separati avresti indovinato qual era la coppia – alto e fisicato, camicia e pantalone bianchi, mocassino scuro e ciuffo fluente. Dall’alto del mio metro e 50 la mia già precaria sicurezza ha tremato e il solito pensiero ricorrente su quanto sono bassa è emerso. Che gambe lei, a chi troppo e a chi niente.
Poi i due si sono accomodati nel tavolo di fronte a me. Sembravano tutti pucciosi, ma a un certo punto non si sa cosa sia successo. Un turbamento ha attraversato il sopracciglio di lei. Che sarà stato? Forse un nonnulla. Forse il menù non era di suo gradimento, non abbastanza light per lei seppur giusto per noi comuni mortali, sta di fatto che ha agitato un po’ le mani mentre parlava, lui zitto, e dopodiché più nulla. Hanno mangiato tutto il tempo in silenzio – dev’essere stato un tempo infinito – lei con la faccia rivolta a ovest, lui ad est. Fissavano il vuoto e il vuoto fissava loro, lei ogni tanto tagliuzzava un pomodorino in minuscoli pezzi – per far finta che il piatto sia pieno si fa così – ma mentre tagliuzzava quel pomodoro sembrava pensasse di distruggere altro e aveva la faccia risoluta di chi ha già deciso. Così ho pensato di nuovo che sì, la felicità non sta nel fatto di essere perfetti, che quando quella perfezione vacilla anche solo per un alito di vento è difficile tenere in piedi il castello della tua vita, e forse davvero anche vivere perennemente scompigliati serve a qualcosa.