Mio nonno Mario aveva gli occhi arguti, il naso affilato e l’attitudine solitaria di Dino Buzzati. Insonne ostinato – una delle sue eredità immateriali – traghettava le notti friggendo uova e macinando pagine. Da un borgo della Bassa vercellese aveva frequentato il Classico – in collegio a Moncalieri – poi Agraria a Milano; per la tesi scelse Portici, una delle sue bizzarrie. A Napoli tornò in viaggio di nozze, poi mai più, il rimpianto lo morse per sempre. Rifiutò la proposta di dirigere una hacienda in Argentina, pane per i suoi denti, ma la famiglia ostacolava, questa spina pure restò.
Gli piacevano le donne belle e prosperose, anche il padre amava le femmine, aveva mollato il seminario per una contessina rovinata longilinea e chiara. Nonno si scelse una moglie dei paesi suoi stupenda, di dieci anni più giovane, conosciuta in un negozio di cappelli da uomo, dove accompagnava il padre. Nonna Teresa era statuaria e mediterranea, quasi creola, i capelli un’onda corvina. Per la sposa diciottenne nel suo abito di pizzo di sartoria meneghina accorsero pure da fuori, “in piedi sui banchi” narrava lei, compiaciuta. Il nonno odiava il freddo, girava in bici e in moto tenendo una pelle di coniglio sotto i panni. Era un pescatore impaziente. A un vigile che lo fermò – sempre in moto, non credo avesse mai avuto una auto – declinò le generalità: “Costante Girardengo”, uno dei suoi idoli, più tardi avrebbe parteggiato per Fausto Coppi. Un anarchico, di una anarchia creativa e borghese, irridente dei mediocri velleitari. Sferzante e fumantino, a un tale che si era preso la libertà di rivolgersi con il “tu”, replicò – in dialetto, che prediligeva – “Va bene, ma io continuo a darvi del voi”. Erano altri tempi e le sue intemperanze, solo verbali, si risolsero con qualche transazione mediata da un amico legale. Né alcuno psichiatra tassonomico pensò di affibbiargli etichette di “borderline”, “istrionico” o roba del genere. Era un eccentrico, un balzano, per i meno indulgenti “un po’ matto”, capace di girare in perfetto cappotto di cammello e calzini spaiati. La morte dell’unico figlio maschio, gravida di infondati rimorsi, lo spezzò. Feci appena a tempo a conoscere un sessantenne che pareva vecchio. Svernavamo a Nervi, ho ancora stampato il suo sguardo: vacuo, buono, attraversato da guizzi di dolore. Dalle nebbie della demenza: “Furba, questa bambina”, pare dicesse – in dialetto – fino in fondo il complimento più alto.