Quel genere di figlio

Una lettera con il timbro postale di Marrakech. Di chi poteva essere? Eppure era proprio indirizzata a lui. Santo Dio, era di Paolo, suo figlio. Non lo vedeva da otto anni. Non gli parlava da dieci. Paolo se n’era andato di casa a diciott’anni, sbattendo la porta dietro di sé, e lasciando due genitori nella disperazione e nella rabbia. In quegli otto anni di latitanza Paolo aveva chiamato qualche volta, solo per sapere della madre, molto malata. Poi Adele era morta e, con lei, le telefonate.
Mario si rese conto di non ricordare più nemmeno la voce del figlio. La lettera era di poche righe; gli chiedeva scusa per tutto quello che gli aveva fatto passare, che sapeva di non essere il genere di figlio che un genitore vorrebbe avere. Scriveva che adesso era cambiato, profondamente. Voleva incontrarlo per parlare, per spiegare. Ma voleva farlo in campo neutro, non a casa, ma in un bar.
L’appuntamento era per le dodici di tre giorni dopo.

Mario alzò gli occhi dal giornale perché sentì la porta del bar aprirsi, ma era un signore con le sporte della spesa. Guardò l’orologio sulla parete, mancavano ancora venti minuti. Abbassò di nuovo lo sguardo verso la cronaca locale, incapace però di concentrarsi su ciò che leggeva. Poi di nuovo il rumore della porta. Un cinese. E giù di nuovo sulla carta intrisa d’inchiostro. Poi una ragazza elegante che andò al bancone. E poi un altro signore dalla pelle ambrata. Infine avvertì una presenza. Alzò lo sguardo e vide che la ragazza elegante era di fronte a lui. Lei sorrise e disse: “Ciao papà”.

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