Questo Due giugno

Ebbene sì, mi sento strano. La causa non va cercata nei trascorsi 90 giorni dei quali vale la pena trattenere una sola immagine: Carlo Cottarelli che si va a prendere il meritato applauso della Loggia alla Vetrata; ha insegnato a tutti, e soprattutto ai molti parvenu della politica, cosa voglia dire essere servitore dello Stato.
Mi riferisco piuttosto al 1 giugno; nel pomeriggio, prima il giuramento del governo-taxi, poi il rito della campanella con i picchetti schierati e la foto dei Quadrumviri Di Maio, Salvini, Conte e Giorgetti. A poche centinaia di metri dai Palazzi, si ritrovava il rassemblement de la gauche con le bandiere tricolori e quelle europee per dire un no sdegnato agli attacchi alla Costituzione e alla figura del Presidente.
Infine, tutti insieme ad ascoltare, prima del concerto e del ricevimento nei giardini del Quirinale, le parole di Sergio Mattarella che celebravano i 72 anni della Repubblica, nonché dell’elezione dei componenti dell’Assemblea Costituente.
È a questo punto che ho cominciato a non sentirmi troppo bene. Qualche stanza più in là, nel Salone delle Feste, poche ore prima i 19 componenti del nuovo Governo avevano giurato nelle mani del Presidente della Repubblica (senza aggiunta di numeri) secondo la formula di rito: “Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione”. Ma appena fuori, lo stesso che in un recente week end milanese chiedeva tempo perché “stiamo scrivendo la storia”, annunciava urbi et orbi che era nata la terza Repubblica.
Non sono un esperto in materia, ma da quelle poche cose che ho imparato sui libri di storia, mi sembra di ricordare che il passaggio da una repubblica a un’altra avviene attraverso una revisione più o meno profonda, della Carta costituzionale; in Francia siamo alla Quinta Repubblica, dopo che Charles De Gaulle nel 1958 varò una riforma in senso presidenzialista con relativo e plebiscitario avallo popolare. Vediamo: come possiamo arrivare al numero tre di Di Maio?
La Prima Repubblica Italiana è sicuramente quella del ‘re di maggio che saluta dall’aereo che lo porterà a Lisbona’, quella che ha restituito alla democrazia occidentale un Paese uscito distrutto e lacerato dalla Seconda Guerra Mondiale.
La nascita della cosiddetta Seconda Repubblica, non è scandita da alcuna esplicita modifica costituzionale. In genere, mi sembra che con questa espressione si intendano indicare quegli eventi che a partire dall’azione dei giudici di mani pulite, dal disfacimento dei maggiori partiti politici, dal referendum popolare del 1993 promosso da Mariotto Segni, portarono a una svolta in senso maggioritario del sistema elettorale e quindi all’affermarsi di quella che è stata definita la democrazia dell’alternanza.
Berlusconi e Occhetto nel 1994, Berlusconi e Prodi nel 1996, Berlusconi e Rutelli nel 2001, di nuovo Berlusconi e Prodi nel 2006 e Berlusconi e Veltroni nel 2008; possiamo dire che, coerentemente con quanto richiesto dalla stragrande maggioranza dei cittadini italiani che dissero sì al referendum Segni, per una quindicina d’anni gli elettori hanno potuto indicare il premier e la maggioranza di governo.
E qui ci dobbiamo fermare perché a partire dal 2013 si afferma prepotentemente un terzo soggetto (i 5 Stelle del comico Beppe Grillo) che alla Camera ottenne i maggiori consensi, con 45.372 voti in più del Pd di Pierluigi Bersani. Quello che è successo il 4 marzo del 2018 è cronaca di queste ultime settimane.
Non che negli anni della democrazia dell’alternanza le cose andassero a gonfie vele, a causa, tra le altre cose, del bicameralismo paritario e di condizioni elettorali diverse tra Camera e Senato. Ma ora, cosa autorizza il giovane Di Maio a ricordarci in ogni occasione che siamo entrati nella Terza Repubblica? Quella, nella quale, se non abbiamo capito male, sarebbero i cittadini a scegliere direttamente i governi e i programmi, attraverso una forma di democrazia diretta che per il M5S passa dalla piattaforma Rousseau e per Salvini dai Gazebo leghisti? Senza, peraltro, poter emettere neppure un sospiro sul nome di un professore non eletto e politicamente vergine catapultato a Palazzo Chigi o sulla collocazione di un altro professore nemico dell’euro, neppure lui eletto, che ha messo a soqquadro per giorni mercati e cancellerie di mezzo mondo? Se quella della Terza Repubblica è soltanto una delle tante sbruffonate di un inesperto ragazzotto napoletano, mi chiedo che bisogno c’era, a costituzione vigente, di concedere un Ministero per la democrazia diretta.
E con questo arriviamo a piazza SS. Apostoli. Anche qui le cose sono confuse, e il mio malessere cresce. Senza toccare la prima parte della Costituzione, sulla quale Roberto Benigni ci ha intrattenuto con toccanti monologhi, ci era sembrato di capire – solo per restare agli ultimi anni – prima con il Presidente Napolitano, poi con un lungo e travagliato dibattito parlamentare, che ci si trovava di fronte a un’emergenza costituzionale: come si può pensare di restare in Europa, che ci chiede stabilità, senza un radicale superamento del bicameralismo paritario? Come non metter mano al Titolo V, quando il contenzioso tra Stato e Regioni ha creato un ingorgo fin nell’attività della Consulta? Non eravamo stati chiamati a pronunciarci con un sì per aprire finalmente anche da noi la strada della modernità?
Dopo il 4 dicembre del 2016 abbiamo rinunciato alle nostre idee riformiste per ritrovarci insieme a una costola della sinistra che, al solo sentir parlare della necessità di metter mano alla Seconda parte della Costituzione, grida al colpo di stato, all’attentato alla democrazia,
Mi pongo una sola domanda: per quale motivo quella del mutamento della forma dello Stato in senso semipresidenzialista, con un diverso equilibrio tra pesi e contrappesi, e di nuovi poteri affidati alla sovranità popolare debba essere una bandiera lasciata nelle mani della destra o peggio ancora degli sfascisti?
Forse, non è vero che mi sento strano; più semplicemente sono estraneo.

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