QUI RIDO IO di Mario Martone

Anni fa, mentre ero a Montreal in sabbatico, ebbi occasione di conoscere una collaboratrice di Louis Malle che paragonò Napoli a New York: sono due città, mi diceva, entrambe telluriche. Sempre in movimento, mai ferme, e il movimento, soprattutto quello tellurico, non è certo solo benevolo. È questa espressione a tornarmi in mente uscendo dal film di Mario Martone. “Qui rido Io” è per i napoletani un’espressione familiare. “Visiva”. È infatti l’iscrizione che Eduardo Scarpetta diede alla sua villa, la “Santarella”, una delle sue commedie più celebri, situata su via Luigia Sanfelice – una delle più belle strade del Vomero e io che al Vomero ci sono nato vivendo proprio in quei paraggi la ricordo da sempre ed è ancora lì. Dopo “Il giovane favoloso”, Martone decide di misurarsi di nuovo con l’elemento biografico raccontandoci Eduardo Scarpetta. Ma stavolta la biografia ha un respiro molto diverso. Non è ristretta all’attore, si allarga invece alla Napoli del primo Novecento, al suo teatro, alla sua cultura, alla sua lingua. È un’opera corale che attraverso Scarpetta racconta la miseria e la nobiltà di Napoli di quell’epoca e forse di sempre. L’opera più matura di Martone anche per come ha diretto uno straordinario Servillo che qui si muove con una naturalezza e una gamma di sfumature espressive prodigiosa e a mia memoria mai esibita prima.
Nel raccontare lo Scarpetta ‘tellurico’ – l’uomo, l’attore, il personaggio, il padre, l’amante, l’impresario ̶ Martone lo mostra con tutte le sue ‘faglie’, con le contraddizioni vitali che mette in moto, le relazioni conflittuali tra i figli – l’ombroso e riluttante Peppino e il già maturo Eduardo ̶ e tra le sue donne, che costituiscono la struttura portante di questa famiglia inusuale: lui sposa Rosa ereditando un figlio non suo, forse di origine regale e poi mette al mondo i tre celebri figli non riconosciuti, Eduardo Peppino e Titina avuti da Luisa, (la bravissima Cristiana dell’Anna), nipote della moglie. Scarpetta è famelico come Felice Sciosciammocca. La scena della danza sul tavolo divorando gli spaghetti afferrati con le mani è la cifra di una vita nata da una miseria reale, molto reale, che tuttavia non si condanna all’inedia e reagisce. Si esprime. Scarpetta è un conquistatore di spazi di vita e di espressione, bulimico, e le tante donne con le quali ha avuto figli, ben nove, fanno parte di questo mondo ‘tribale’ che gli è evidentemente necessario, una forma di vita nella quale lui si muove con la naturalezza del conquistatore ridisegnandone ogni giorno i confini, dettando i compiti, come l’impresario e il regista fanno con la propria compagnia. Scarpetta segna un’epoca del teatro napoletano dopo Petito mettendosi contro i cantori ufficiali della città: Libero Bovio, Roberto Bracco, Salvatore di Giacomo non accettano la sua risata, mentre è proprio in quella risata e la sua manifestazione più antica, la maschera, che si nasconde il tragico della vita. Se accanto al tellurico c’è un altro elemento portante della figura di Scarpetta è la sua natura porosa, come proprio in quegli anni Walter Benjamin definiva la nostra città e le sue pietre di tufo, i suoi quartieri antichi dove convivevano l’alto e il basso. Questo transito continuo dalla scena alla vita e dalla vita alla scena è la porosità di Napoli che attraverso Scarpetta rivive, la sua plasticità: I figli e le donne di Scarpetta, gli uni accanto e insieme agli altri, ma anche gli uni contro gli altri senza soluzione di continuità, come attori su un’unica scena. Il suo interrogatorio al processo intentatogli da D’Annunzio per la parodia della Figlia di Iorio, una vera e propria arringa in difesa del suo teatro è un capo d’opera. E Martone ci ricorda che a rendergli giustizia non fu solo il tribunale di Napoli ma anche il suo teatro, mentre alla fine del film vediamo scorrere le fotografie dei suoi diretti discendenti, Eduardo, Peppino e Titina che ne hanno proseguito il lavoro.

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