“Michelle LaVaughn Robinson, ragazza della zona Sud di Chicago, negli ultimi 25 anni, non solo sei stata mia moglie e la madre delle mie figlie. Tu hai assunto un ruolo che non avevi chiesto e lo hai fatto tuo con grazia e determinazione e stile e buon umore. Hai reso la Casa Bianca, un luogo che appartiene a tutti. E le nuove generazioni stabiliranno obiettivi più alti perché avranno te come modello. Mi hai reso fiero e hai reso fiero il paese”.
Per due volte, interrotto dall’ovazione del pubblico, Barack Obama, il 44mo presidente degli stati Uniti, prende il fazzoletto dalla tasca per asciugarsi le lacrime, senza mai smettere di guardare, dritto negli occhi, la donna della sua vita e la First Lady degli Stati Uniti. In quello sguardo profondo, che quasi silenzia la gioia dell’applauso, si stanno raccontando, ancora una volta, una storia.
Quella di due giovani americani: una, nipote di schiavi e l’altro, figlio di una coppia mista, cresciuto da una madre single, che si incontrano a Chicago e si innamorano guardando un film di Spike Lee. Una coppia qualunque, che combatte con il mutuo da pagare, il debito con l’università da saldare, due figlie da crescere a South Chicago e quella pelle nera che significa ancora un limite alle aspirazioni.
Una coppia qualunque, per questo straordinaria; tanto che quando il giovane senatore Obama riesce a far passare il suo primo provvedimento di legge e chiama sua moglie, lei, presa da lavoro e rogne quotidiane, gli risponde distrattamente “Barack, la casa é invasa da formiche: tornando a casa fermati a comprare il veleno”.
Se dovessi sintetizzare la grandezza di Barack Obama, la forza della sua presidenza, la visione del suo governo illuminato, sceglierei quel minuto di sguardi silenziosi: quella storia che ci hanno raccontato mentre i nostri occhi si inumidivano per un addio che non è facile metabolizzare. Perché in quella storia, in quel racconto commosso c’eravamo tutti noi.
Noi, il popolo. Come ha ricordato Obama ripetutamente ieri sera. Noi, il popolo che aveva bisogno di assistenza sanitaria, di diritti umani, di discorsi di pace, di diplomazia, di dignità, prima di tutto. Noi, il popolo, che aveva bisogno di sperare più che sognare, di credere più che di immaginare, di sentirci utili più che di lasciarci guidare: noi, oggi sentiamo di aver perso dei cari amici, delle persone di cui fidarsi, qualcuno sulla cui spalla poggiare la testa.
Noi abbiamo perso la parte migliore di noi stessi, sapendo che fra pochi giorni ci toccherà confrontarci con la peggiore e con il suo pericoloso richiamo: all’egoismo, all’assenza di solidarietà, al bullismo e alla violenza. E, soprattutto, all’assenza di speranza.
Il discorso di Obama ieri sera è stato, come previsto, perfetto. E ogni passaggio, ogni richiamo all’immigrazione, alla solidarietà, alla difesa dell’ambiente dovrà essere letto e ripetuto e imparato a memoria. Per sentirsi pronti ad accogliere quel suo invito all’azione, la sua chiamata alle armi del pacifismo e delle resistenza e dell’impegno di cui, lui, da cittadino, sarà sicuramente leader.
“La nostra Costituzione – ha detto Obama – é un bellissimo dono. Ma è semplicemente un bel pezzo di pergamena. Non ha potere in sé stesso. Noi, il popolo, gli diamo potere con la nostra partecipazione”.
Ed è in questo giorno, in cui è ancora più difficile accettare questa transizione, che questo monito deve diventare la nostra spinta, il pungolo per la nostra coscienza, l’imperativo per la nostra dignità di cittadini. Partecipare. Rimboccarsi le maniche. Senza ascoltare i cinici, coloro che hanno perso la speranza, quelli che “si siedono e se la prendono con il politico di turno”. Il mondo, quello che vogliamo, non nascerà da loro. Ma da noi.
Perché solo il cinismo rende ciechi e non ti fa vedere quella linea che da Rosa Parks passa verso Malcom X e Martin Luther King e arriva a Malia Obama, alle sue lacrime, al suo futuro. Al nostro.
Da New York, oggi 11 gennaio 2017