Recensioni secondo Luca – 1

Sono diversi i medici di cui facciamo la conoscenza nelle pagine di Georges Simenon, a conferma di un interesse più volte testimoniato nei confronti di quella professione, soprattutto in ambito psichiatrico e psicoanalitico. Interesse ben comprensibile in un profondo esploratore novecentesco dell’animo umano, delle sue inquietudini e sofferenze, che ha fatto della scrittura un sensibilissimo strumento per questo tipo di indagine. Nei romanzi, più che specialisti di queste discipline, incontriamo medici generici, ma Simenon ci ripete che ogni medico deve essere anche psicologo, per comprendere fino in fondo i propri pazienti, i loro sintomi, anche quelli organici, le loro difese. E per comprendere se stesso.
Anche Maigret sarebbe dovuto diventare medico, se non fosse stato costretto ad abbandonare gli studi a causa della prematura scomparsa del padre. Molto della sua vocazione terapeutica si trasferisce nel rapporto che instaura con i propri “clienti”, quale “raddrizzatore dei destini”. Non a caso il suo migliore amico, l’unico in grado di comprenderlo, di comprendere i suoi dubbi e il peso della responsabilità che grava su chi si trova a dover decidere della vita di un essere umano, è il dottor Pardon.
E’ nei romanzi-romanzi però che questi temi trovano le forme più alte di espressione, anche se i medici non offrono mai al lettore spiegazioni, tantomeno consolazioni. Basti pensare a “Il clan dei Mahé” soprattutto, e, pur con esiti meno compiuti, a “Il dottor Bergelon“. Sono le prime opere che mi vengono in mente leggendo “L’orsacchiotto“, anche se può risultare difficile paragonare le figure di modesti, provinciali medici di famiglia dei due romanzi che ho ricordato, a Jean Chabot, barone della medicina pienamente affermato, professionalmente ed economicamente, nella capitale.
Eppure proprio al dottor Bergelon fa pensare dapprima “L’orsacchiotto”, per quelle minacce che hanno iniziato a tormentare i protagonisti, che li hanno costretti a riflettere sulle loro scelte, per quell'”errore”, involontario, che ha dato origine al dramma. Anche Jean Chabot, al pari di Bergelon, ad un certo punto si renderà conto che l’unico essere al quale si sente in qualche modo legato, al quale desidererebbe parlare, l’unico in grado, forse, di capirlo, è la propria vittima, divenuta un persecutore. Tutto ciò resta tuttavia un elemento accessorio della trama, la figura non viene mai messa a fuoco, resta una possibilità non approfondita, un sospetto.
Più consistenti risultano invece i legami con François Mahé, a partire dal sogno che dà l’avvio al racconto, alla minuziosa, ossessiva rievocazione di un’intera esistenza. Anche ne “Il clan dei Mahé” i sogni rivestono un’importanza decisiva, seppur grammaticalmente molto diversi: alla spietata nitidezza dei dettagli di questi si contrappone ne “L’orsacchiotto” la confusione delle ombre; identica però resta la suggestione di una rivelazione, pur se rimasta incompresa, il senso di una minaccia, di un’ostilità che pare incarnarsi nel paesaggio più che negli attori; il senso di un’insanabile frattura.
Soprattutto è la costrizione che attanaglia l’esistenza dei personaggi ad apparire analogo. Entrambi si rendono conto di non vivere la propria autentica vita, ma quella imposta dalla rete di relazioni che si sono venute tessendo intorno a loro, intrappolandoli, che hanno preso il sopravvento, che li hanno costretti ad assumersi il peso di responsabilità eccessive, negando loro il diritto di sbagliare. Responsabilità nei confronti di clan, famigliari e sociali, cui si è smesso di appartenere, di credere: tema simenoniano per eccellenza, all’origine di molte narrazioni, di molti tentativi di fuga.
L’unico dono gratuito, l’unico istante di leggerezza, di felicità, che Jean Chabot ha conosciuto è stato l’incontro con l’orsacchiotto, poco più che un sogno anch’esso, immediatamente svanito. Dopo di ciò rimane solo la consapevolezza dell’impossibilità di un’evasione, se non quella estrema: è inutile cercare il ristoro di una vacanza, una Porquerolles, una ragazzina dal vestito rosso. E’ inutile sforzarsi di lottare.
Apparenta Chabot a Mahé, infine, l’epifania che chiude il racconto, l’improvvisa chiarezza che rivela il senso del suo lungo e angoscioso percorso. Un’epifania che però non apre alcuno spazio ulteriore, disdegna ogni possibilità di lirismo; proprio grazie a tale assenza, a tale vuoto che non si vuole colmare, l’esplorazione dell’animo umano diviene ancor più vertiginosa.

(Come sempre ottima la traduzione di Laura Frausin Guarino, cui dobbiamo, fra le tante, anche quelle de “Il clan dei Mahé” e de “Il dottor Bergelon”)

#recensionisecondoluca

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