Ogni volta che percorreva la statale per tornare a casa, vedeva quell’insegna: RECUPERI FALLIMENTARI. Era una scritta discreta, pitturata sulla parete esterna di un edificio squadrato, un parallelepipedo di cemento, sul quale le grandi lettere in stampatello nero, tracciate probabilmente col rullo, spiccavano compostamente, più come avvertenza che come richiamo.
La strada, che lo avrebbe condotto come ogni sera alla propria abitazione, era incorniciata da montagne maestose e boschi verdeggianti (quando si ripeteva questa formula descrittiva tra il soddisfatto e l’incantato, gli pareva di tornare bimbo e leggere certe pagine del libro di antologia o di quello di geografia, quando le descrizioni dei paesaggi annunciavano svolte narrative o elenchi di informazioni ambientali) e i suoi occhi si riempivano – grati, ogni volta – di tanta bellezza. Eppure, ogni sera, giunto alla quarta curva prima del suo arrivo, il suo sguardo era calamitato da quell’edificio squallido, sull’orlo di una scarpata, in posizione dominante e ben visibile dalla statale, e da quella scritta nera: RECUPERI FALLIMENTARI. E allora le descrizioni da sussidiario elementare lasciavano spazio a un rimuginare scomposto, a un affastellarsi di immagini confuse e sottilmente dolorose, uno sciabordio di parole indistinte, il cui eco distorto lo turbava al punto che alzava al massimo il volume dell’autoradio per stordirsi e cacciarle via, nel limbo opaco da cui provenivano.
Abitava in quella valle da qualche mese, ormai. I casi della vita lo avevano portato da una città caotica a un’oasi paesaggistica, dal rumore del traffico e dal vociare di un ufficio pubblico con decine di sportelli, al silenzio pacificatore di un comune montano di alcune centinaia di anime, distribuite in casette di pietra e legno, con terreno boschivo e a pascolo, orti fecondi e giardini dai colori sgargianti, curati con amorevole fermezza da mani esperte e addestrate da secoli di solida cultura contadina. Lì aveva ottenuto di potersi trasferire poco tempo prima, dopo quel brutto esaurimento che gli aveva cambiato la vita. I suoi superiori, benevolmente, tenuto conto della sua situazione e dell’affidabilità e dedizione al lavoro che aveva sempre dimostrato, avevano fatto in modo che il suo nome fosse segnalato in un concorso interno per titoli, che di fatto non interessava nessun altro che lui, visto che il posto in palio prevedeva il distacco in un paesino perso da Dio, in cui era necessario provvedere al riordino e all’informatizzazione dell’archivio comunale. In quell’ufficio le persone impiegate si contavano sulle dita di una mano monca: c’era una non più giovane signorina facente funzioni di segretaria, un omino grigio che sembrava avere assorbito la polvere di tutti gli incartamenti di quell’archivio e che – inopinatamente – si era poi rivelato essere il direttore, un giovane impiegato incaricato delle più svariate mansioni, cui adempiva mantenendo fermo un sorriso scanzonato, e il neo arrivato, che era stato accolto da tutti costoro con riservata cordialità, tipica della vallata, come ben presto ebbe modo di accorgersi.
Aveva preso in affitto, a qualche chilometro dal paese principale, dove si trovava l’archivio, una minuscola casetta di legno e muratura prefabbricata, una di quelle che erano sorte nel verde ai bordi della strada che si inerpicava tra i monti, a lato del fiume che dava il nome alla valle, quando sembrava che il turismo potesse essere una nuova fonte di guadagno per quella comunità, casette che invece, poi, erano rimaste vuote di vita e di prospettive. Non si era dato molto pensiero per arredarla. Già c’era il mobilio indispensabile, perfino grazioso nel suo stile rustico, ed egli non avvertì il bisogno di conferire un tocco personale: aveva portato con sé ben poco dalla casa cittadina e sembrava non sentire la mancanza di altro. Si alzava prestissimo, ad ore antelucane, ben prima di quanto fosse necessario per recarsi al lavoro. Gli piaceva aprire le finestre, la porta di casa, respirare quell’aria fredda e pungente della notte che sta divenendo alba: lo aiutava a mettere ordine nei pensieri, catalogare i ricordi, riporre le emozioni da dimenticare nel suo personale archivio mentale. Poi, mentre osservava il cielo mutare colori e luce, si preparava un caffè, lo assaporava bollente, come piaceva a lui, si vestiva con calma, la radio accesa per sapere cosa fosse successo nel mondo, andato avanti mentre lui era tornato indietro. Quindi prendeva la macchina, brillante di brina o rugiada, e si godeva quei tornanti alpini, sempre in compagnia delle voci e delle musiche dell’autoradio.
Arrivato in paese si concedeva una seconda e più sostanziosa colazione al baretto sotto i bassi portici della piazza, proprio di fronte al suo ufficio. Lì incontrava i rari mattinieri come lui, che bofonchiavano frasi in un dialetto per lui oscuro, stretto come gli occhi che, i primi tempi, lo avevano squadrato per capire come quel foresto potesse essere accolto nella piccola comunità, se con garbo riservato, indifferenza cortese, o gelida ostilità. Gli parve che, dopo aver prevalso in principio la cortese indifferenza, si fosse arrivati abbastanza velocemente al garbo riservato senza passare dalla gelida ostilità, e questa gli era sembrata già una notevole conquista, che in qualche modo lo aveva rinfrancato.
Il lavoro d’archivio, come aveva previsto, lo appassionò. Scoprì molte vicende e accadimenti di quella valle, prese l’iniziativa – incoraggiata dall’omino grigio, che si era rivelato un profondo conoscitore di storie familiari, personali e collettive – di svolgere ricerche nelle biblioteche e nelle parrocchie delle frazioni. Accompagnato dal collega giovane e sorridente, che faceva da interprete, addirittura venne invitato a incontrare vecchi dai visi cotti e rugosi (parevano scolpiti nel legno, come quelle sculture che sbucavano improvvise nel bosco così come negli angoli delle viuzze), depositari di memorie di rilevanza storica e culturale. Informatizzare l’archivio divenne l’ultimo dei suoi pensieri e venne stabilito che il lavoro di ricerca che stava svolgendo avesse addirittura un finanziamento dal ministero!
Immerso in quella nuova realtà, gratificato dalla piega che aveva avuto il suo impiego, ritemprato anche fisicamente da quei ritmi di vita montana, così diversi da quelli nevrotici della città, gli pareva di dover godere finalmente di quella serenità che tanto aveva cercato. Eppure, ogni sera, giunto alla quarta curva prima del suo arrivo, il suo sguardo era calamitato da quell’edificio squallido, sull’orlo di una scarpata, in posizione dominante e ben visibile dalla statale, e da quella scritta nera: RECUPERI FALLIMENTARI.
E una sera, giunto a quella curva, mise la freccia (perché poi… non c’era nessuno, oltre lui, a quell’ora, su quella strada, lui lo sapeva bene…) e accostò sul ciglione che dava, a destra, sul fiume. Spense la radio, frugò nel cassetto del cruscotto, trovò il pacchetto che aveva lasciato lì dall’ultima sigaretta fumata nel piazzale, subito prima di entrare in quella autostrada che lo avrebbe portato verso una nuova vita. Non aveva più fumato da allora: se vita nuova doveva essere, che lo fosse anche cessando quelle piccole nocive abitudini che erano divenute un’ossessione negli ultimi tempi. Accesa la sigaretta, aspirando nervosamente le prime boccate, notò che il gusto del tabacco gli dava nausea, non lo riconosceva, o meglio, lo riconosceva e per questo ne era nauseato. Quella sera le nubi erano molto basse, quasi appese ai rami degli alberi, un vapore che infradiciava i pensieri, mentre il fumo della sigaretta vi si confondeva. Fumava appoggiato al cofano ancora caldo della propria macchina, guardando oltre la nebbia nubiforme. Di più: guardando oltre quel suo presente, più indietro, mettendo a fuoco ciò che a lungo non aveva più voluto vedere. Meccanicamente accese un’altra sigaretta, neppure più ne sentiva il gusto, ma gli era necessario avere tra le dita qualcosa cui aggrapparsi. Per un attimo vide nitidamente la scritta RECUPERI FALLIMENTARI dall’altra parte della strada: quell’edificio grigio di cemento aveva la meglio sulle nubi basse e sul loro vapore acquoso. Ripensò a tutti i suoi fallimenti, ai sogni inseguiti e perduti, a ciò che – sembrato a portata di mano – gli era scivolato via per le proprie incapacità, effettive o supposte, alla costruzione felice di una vita a due crollata sotto i bombardamenti di delusioni offerte e subite. E poi la crisi, quel crollo psichico prima ancora che fisico, che lo aveva spinto prima a non volere più uscire di casa, affumicata dalle decine e decine di sigarette fumate di continuo, poi a rimpinzarsi di schifezze a ogni ora del giorno e della notte, poi, improvvisamente, a smettere di mangiare e, infine, a credere che mettere fine a tutta quella sofferenza fosse l’unica scelta rimastagli. Lo aveva salvato la vicina di pianerottolo, che, allarmata per l’odore di gas che aveva sentito provenire dall’appartamento accanto, aveva dato l’allarme.
E poi quella chance insperata del concorso e del trasferimento. Quell’aria nuova, buona, balsamica. Quell’ambiente in cui era stato accolto senza troppe domande, con fiducia. Quell’omino grigio che aveva creduto in lui e gli aveva offerto l’occasione per andare dietro a un sogno, a un’intuizione che si era rivelata vincente e condivisa: dimenticare la propria storia per recuperare quelle degli altri.
Gettò il mozzicone per terra e lo schiacciò con la punta della scarpa. Poi lo raccolse, insieme a quello della prima sigaretta, un gesto nuovo di rispetto per quella vallata. Non si risolveva, però, a risalire in macchina e ripartire. Gli venne in mente qualcosa che aveva studiato per uno dei vari concorsi pubblici cui aveva partecipato: “Il curatore fallimentare ha il compito di provvedere all’amministrazione del patrimonio fallimentare, assicurandosi che tutti i creditori vengano pagati e i debiti saldati”. Ecco, lui era stato il curatore di se stesso dopo il suo personale tracollo, recuperando quanto necessario per pagare il debito verso la propria esistenza. Sorrise tra sé e sé per quella melodrammatica sentenza che si era costruito. Fu così che l’idea che lo aveva accompagnato per settimane (arrampicarsi sul quel parallelepipedo grigio e buttarsi nella scarpata), lo abbandonò del tutto. Si sentiva pronto per altri recuperi. Fallimentari.