Allora, con questo voto, e con i ballottaggi di domenica prossima, Renzi c’entra o no? Per rispondere, devo chiarire quando e come comincia la “storia” nella quale le amministrative in corso si collocano.
A me sembra che l’inizio sia evidente: 24-25 febbraio 2013, giorni delle ultime elezioni politiche. Lì avviene il “salto” o – se si preferisce – la “rottura”. A cominciare dalla partecipazione al voto: per la prima volta nell’Italia repubblicana, in occasione del rinnovo del Parlamento, si scende sotto l’80% (75,20, contro l’80,51 del 2008).
Il panorama elettorale ne esce sconvolto. Le due forze maggiori, PD e PDL, che cinque anni prima si erano divise il 70,86% dei suffragi, nelle urne del 2013 ne raccolgono, assommate, meno del 50 (49,73). In assoluto, il PD prende 3 milioni e 400 mila voti in meno, il PDL 6 milioni e 300.000. 11 milioni e mezzo di italiani – uno su tre partecipanti – danno il loro voto a due liste “debuttanti”: M5S (8 milioni e 700.000 voti) e Lista Monti (2 milioni e 800.000). Non è così inspiegabile: la crisi economica morde da quattro anni; da due anni c’è un “governo anomalo”, reso possibile dal sostegno di maggioranze tanto larghe quanto forzate e riottose.
Le difficoltà dell’economia e le anomalie della politica segneranno la vita intera di questa 17° legislatura. In tutti e tre gli anni successivi si sono tenute elezioni, non tutte dello stesso peso ma che consentono di “misurare la temperatura” e di seguire l’andamento della parabola iniziata nel 2013.
Nel 2014 le europee: votano circa 15 milioni meno dell’anno prima (20 milioni contro 35). Forza Italia, erede del PDL, subisce un ulteriore calo (2.700.000 elettori e 5,5% in meno); M5S ha una battuta d’arresto (quasi 3 milioni e circa il 4% in meno); la Lista Monti non c’è più. Nonostante la forte riduzione dei votanti, il PD raccoglie 2 milioni e mezzo di voti più del 2013 e supera il 40%. Difficile, in questo caso, non parlare di “effetto Renzi”, da sei mesi segretario del PD e da meno di cento giorni insediato a Palazzo Chigi.
Le europee sono elezioni senza effetti diretti sulla vita delle istituzioni nazionali; agevolano perciò lo scoccare di un lampo, prodotto dal contatto fra il pessimismo accumulato e la speranza per il futuro. Il “lampo del 2014” segnalò una forte domanda di innovazione e un’ampia disponibilità a sostenerla, tanto da lasciare qualcuno abbagliato; ma non poteva essere risolutivo,
Lo dimostra il turno elettorale parziale dell’anno successivo, che oggi sembra dimenticato da tutti. Strano, perché il “maggio regionale” del 2015 è l’appuntamento più vicino – non solo cronologicamente – a questo giugno “delle città”.
Il numero dei votanti si contrae ulteriormente, con una percentuale nettamente più bassa del voto europeo di dodici mesi prima. Nelle cinque regioni del centro-nord (Liguria, Veneto, Toscana, Marche, Umbria) i candidati PD, con le liste alleate, prendono 1.753.000 voti a fronte dei 2.880.000 raccolti dal solo PD nel 2014. Invece, i due candidati meridionali, De Luca e Emiliano, ne hanno 400.000 in più. Ricordo che quando, a notte inoltrata, mi staccai dal teleschermo, era certo che il PD aveva perso la Liguria, e la sua vittoria in Umbria e in Campania appariva seriamente insidiata.
Le attuali elezioni amministrative ripropongono e ribadiscono le tendenze emerse nelle regionali di un anno fa. Penso che informatori e commentatori abbiano intenzionalmente trascurato di richiamarle, per non guastare l’”effetto sorpresa”, l’esibizione dell’”inaudito” e dell’”imprevedibile”, doping del quale sembra non possano più fare a meno.
In sostanza, siamo ancora nel gorgo nel quale l’Italia è precipitata tre anni fa. Comunque, ci avviciniamo a un “fixing” chiarificatore; dal quale possono derivare due scenari, molto diversi fra loro.
Il primo prenderebbe corpo nel caso di vittoria del NO nel referendum costituzionale. Il blocco della riforma, la conferma del bicameralismo perfetto, la necessità di omogeneizzare le leggi elettorali per Camera e Senato, indurrebbero – con ogni probabilità – a restaurare il sistema proporzionale; si compirebbe, così, l’opera iniziata dalla Consulta con la sentenza del 4 dicembre 2013. Ciascuno è in grado di valutare quale sarebbe, con gli attuali assetti politico-partitici, il tasso di governabilità sul quale potrebbe contare l’Italia.
Il secondo scenario diventa possibile se a ottobre il referendum rende definitiva la riforma. Il prossimo voto politico produrrebbe, allora, una maggioranza e un leader con il compito e la possibilità di dare un governo al Paese nel quinquennio successivo. E farebbe anche capire – cosa non meno importante – quale sia la “seconda forza” alla quale gli italiani affidano la responsabilità della opposizione, e il compito di garantire l’alternanza.
Certo che Renzi c’entra; anzi lui per primo. Ma, con lui, nel gorgo del 2013 ci siamo tutti; con la possibilità, però, di uscirne. Se lo vogliamo.