Fosco Maraini, scrittore, poeta, etnologo, fotografo, alpinista, orientalista e soprattutto grande esploratore: i resoconti dei suoi viaggi sono cultura antropologica e poesia che si intrecciano alle memorie personali e vanno dritto al cuore di un popolo. Lo abbiamo incontrato, nella sua casa fiorentina, poco prima della sua morte e con noi ha condiviso i ricordi delle sue esperienze tibetane. Sembra incredibile, ma nel ’37, in Tibet, non era ancora stata inventata la ruota! Quindi i mezzi di trasporto erano i cavalli, gli yak per il carico e…i piedi! Certo, chi ama la velocità non può concepire un viaggio a piedi, ma camminando si sposa il paesaggio, ci si avvicina alle cose nel modo più intimo, è una conquista lenta ma totale. L’unica “diavoleria” moderna arrivata in Tibet erano i fiammiferi, venduti nei villaggi, dai nomadi, nei monasteri. E così, abbandonata la pietra focaia, si ricorreva però per l’illuminazione a graziosi lumini alimentati con l’onnipresente e polivalente burro di yak, perché certo i tibetani non coltivano olivi e girasoli, da cui ricavare l’olio. L’odore per eccellenza del Tibet è quello acuto penetrante dolciastro del burro di yak, che impregna abiti e case, monasteri e monaci; il colore è il lacerante contrasto fra il blu del cielo, il bianco abbagliante dei ghiacciai e l’ocra della terra: contrasti così intensi che quasi mi stordivano. Il gesto? Una linguaccia! Chissà se lo fanno ancora, ma allora tiravano fuori la lingua per salutare. Un’avventura di cui non si conosceva mai la fine, era lo sviluppo delle foto. Il concetto di “buio assoluto” era per i tibetani assolutamente relativo. E dopo aver irrimediabilmente rovinato pellicole per colpa di qualcuno che se andava allegramente in giro con una lanterna accesa, organizzai un servizio di guardia fuori dalla mia improvvisata camera OSCURA. Ma anche fare le foto era un’avventura! Chi oggi, nelle sofisticatissime macchine dalle mille funzioni, inserisce la funzione “flash automatico”, non si immagina certo che, ai tempi del mio primo viaggio in Tibet, il buio veniva illuminato per un attimo da uno squarcio di luce dato dalla polvere di magnesio che veniva infuocata: era il famoso “lampo al magnesio”, lungo da preparare, a volte anche pericoloso. E pensare che in queste condizioni all’epoca ho fatto più di 2000 foto. Voglio raccontare un episodio: un giorno si scatenò improvvisa una tempesta: vento, pioggia a raffiche, tuoni e fulmini. Con un certo timore, corsi a rifugiarmi in un vicino monastero. Entrai fradicio e ansante e un vecchio monaco mi guardò con aria interrogativa: “Hai avuto paura di morire?” mi chiese. Dovetti ammettere che, si, insomma, ero abbastanza spaventato. Senza cambiare espressione, ma con un sorrisino beffardo, mi rispose “Come, ma tu non sai quante volte sei morto! E allora perché devi aver paura di una cosa che conosci già?” Avevo sottovalutato i vantaggi della reincarnazione.