I
Era agosto, il 10 agosto, per l’esattezza. Il professor De Albertis si trovava già da un paio di giorni in quella località balneare presso cui, come sempre, trascorreva la settimana di ferragosto, l’unica settimana filata di vacanza che poteva concedersi durante l’anno. Era arrivato l’8, col treno del mattino e, trascinando un trolley leggero (portava con sé poche cose: due paia di bermuda, due jeans, due magliette, due camicie, una felpa, un paio di infradito e un paio di scarpe chiuse, biancheria di ricambio, una trousse per l’igiene personale), messo in spalla lo zainetto con due costumi da bagno, un telo da mare, una crema solare e il fedele ebook reader, aveva raggiunto a piedi la semplice pensioncina che lo ospitava ormai da diversi anni, e che si trovava a qualche centinaio di metri dalla stazione e a qualche decina dalla spiaggia.
Alla reception (che altro non era che l’ingresso di una casetta a due piani, trasformata dalla proprietaria – per necessità economiche – in una pensione alla buona per villeggianti altrettanto alla buona) lo aveva accolto, col suo broncio cordiale, scià (signora) Maria, la proprietaria sempre scorbutica e scostante coi foresti suoi ospiti, ma burberamente tenera con chi, tra questi, mostrava riservatezza ed educazione. Il professor De Albertis era tra costoro, anzi, era il favorito, così timido e distinto, così cortese e silenzioso. La conversazione di accoglienza era sempre la stessa: il benvenuto di prammatica, qualche osservazione sul tempo previsto in quella settimana, scambio di documenti e chiavi della stanza, nessun cenno all’aspetto o alla vita privata dell’ospite. E dire che il professor De Albertis, col passare degli anni, era profondamente cambiato: palesemente invecchiato nel viso e fiaccato nello spirito, non aveva più nulla del bel giovanotto che era stato al suo primo arrivo come cliente della pensioncina. Da sempre parco di sorrisi, quando però capitava che qualcosa ne provocasse uno, il suo sguardo si illuminava di una dolcezza tenera, di un’allegria bambina, una caratteristica preziosa, perché rara, che aveva saputo toccare anche la stundaia scià Maria.
Sbrigate le formalità, portato il bagaglio in camera, indossati i bermuda e gli infradito, messo in spalla lo zainetto per il mare, si era subito diretto alla “sua” spiaggetta libera, meta vera di quelle sue vacanze. Appena varcato il cancelletto per accedervi, aveva involontariamente ma irresistibilmente sorriso. Ecco, ogni volta che arrivava in quel luogo per lui quasi magico, inconsapevolmente il suo volto si apriva in un sorriso di pura felicità. Lì non c’era mai ressa, nessuna cabina, nessun ombrellone, nessuna sdraio. Unica concessione ai pochi frequentatori, una doccetta spartana, poco più che un rubinetto senza alcun riparo, che dava solo acqua fredda. La spiaggia non era di sabbia, ma di ciottoli, e scogli puntuti segnavano il confine tra quell’oasi silenziosa (ma poco apprezzata) e i chiassosi (ma molto graditi) stabilimenti che puntellavano quella riviera di turismo familiare.
II
Il professor De Albertis ripeteva ogni anno, in ogni giorno (di sole, si intende!) della sua settimana di vacanza, gli stessi gesti, gli stessi riti: cercava un ben preciso posticino poco prima degli scogli, toglieva le pietre più grosse e col piede pestava i ciottoli per rendere più piano dove avrebbe poi steso il suo asciugamano. Quindi si cingeva il telo sui fianchi, toglieva bermuda e slip e, con maestria, li sostituiva con il costume. Poi, spostato il telo dai fianchi alle pietre, vi si sedeva e con molta cura si spalmava un po’ di crema su quella pelle bianca da cittadino. Finalmente poteva sdraiarsi, come un paziente fachiro, e prendere il sole: mezz’ora sulla pancia, mezz’ora sulla schiena. Trascorso questo tempo, era finalmente l’ora del bagno: si avvicinava lentamente al mare, rabbrividiva al contatto dell’acqua sui suoi piedi lunghi e magri, poi avanzava un poco, fino a che le onde lambivano i polpacci. A questo punto, si spruzzava un po’ d’acqua sul ventre, tremando di freddo e di eccitazione, quindi, facendosi coraggio, si immergeva completamente, dando vigorose bracciate per scaldare il corpo e lo spirito.
Che bella sensazione! Il professore muoveva braccia e gambe con un ritmo perfetto, come scandito da un metronomo interno precisissimo, che ne guidava la respirazione e lo portava velocemente al largo. Quando nuotava era come se recitasse interiormente un sonetto, una canzone, un’ode, un carme, un idillio. Ne seguiva istintivamente la metrica, la struttura ritmica, la lunghezza e l’accentazione dei versi, lo schema delle loro rime. Si sentiva bene: tutto era giusto, perfetto nella sua regolarità matematica, naturale. Naturale, sì. Quella naturalezza perduta da tempo immemore, cancellata dalle esitazioni, dai rimpianti, dalle sconfitte che avevano puntellato la gabbia metrica della sua vita, imponendo cesure improvvise e dolorose, accelerazioni incongrue e faticose, a capo e spazi senza suoni se non quello stridente del silenzio. Arrivato al largo, dove la riva appariva poco più di una linea frastagliata e lontanissima, il professore smetteva di nuotare e si lasciava galleggiare facendo “il morto”. Era bravissimo in questo: abbandonava il suo corpo alla spinta dell’acqua e se ne sentiva confortato, alleggerito, sollevato finalmente dai pesi (veri e metaforici) che prima o poi – lo sapeva bene – lo avrebbero trascinato nell’abisso.
III
Ma torniamo a quel 10 agosto. I due giorni precedenti si erano consumati nei consueti gesti, senza alcuna variante all’usato copione vacanziero del professore. Anche il 10 aveva visto il ripetersi degli stessi riti, senza che De Albertis pronunciasse una sillaba in più delle solite striminzite frasi necessarie a un’educata convivenza civile. Quella mattina, tuttavia, leggendo a colazione il quotidiano con cui si aggiornava sui fatti del mondo (pur rimanendone estraneo), il professore fu attratto da un paginone interno, dedicato alla notte di San Lorenzo e al fenomeno delle stelle cadenti, declinato dal punto di vista scientifico, da quello delle tradizioni e credenze popolari e con l’ovvio richiamo alla celeberrima poesia X Agosto di Giovanni Pascoli. Se lo lesse tutto, dopo di che, preso lo zaino da mare, si incamminò verso la spiaggetta. Al momento del bagno, quasi inconsapevolmente, il ritmo che diede alle sue bracciate fu proprio quello della lirica pascoliana
San Lorenzo, io lo so perché tanto / di stelle per l’aria tranquilla / arde e cade, perché sì gran pianto / nel concavo cielo sfavilla.
Contava le sillabe dei versi (decasillabi e novenari: bracciata lunga e sforbiciata delle gambe appena più rapida), le rime alternate (ABAB aspira/espira), e ogni enjambement – con cui il senso sintattico di un verso trova il suo naturale prosieguo nel successivo – gli rammentava che non poteva ancora fermarsi, ma occorreva proseguire. Così rivisse il dramma della rondine uccisa e dei suoi rondinini condannati a morire d’inedia nel loro nido, e quella in parallelo dell’assassinio del padre di Pascoli, con il suo nido familiare devastato dalla tragedia occorsa. Arrivato all’ultima strofa
E tu Cielo, dall’alto dei mondi / sereni, infinito, immortale, / oh! d’un pianto di stelle lo inondi / quest’atomo opaco del Male!
il professore stabilì che poteva fermarsi a riposare, il dorso sospeso sulla superficie dell’acqua, gli occhi rivolti al cielo limpidissimo di quella mattina. Che tranquillità! Che silenzio. Solo qualche grido di gabbiano e l’eco delle parole in rima che ancora rimuginava tra sé lo attraversavano. Quando decise di tornare a riva, De Albertis si sentiva riappacificato e prova ne era il sorriso che offriva alle onde che attraversava. Si era fatta ora di pranzo e il professore tirò fuori i panini che scià Maria gli preparava ogni giorno. Li divorò con appetito, lesse alcune pagine di un ebook di poesia che aveva scaricato qualche tempo prima, poi un abbiocco invincibile lo colse e, senza quasi accorgersene, si abbandonò ad un sonno ristoratore.
IV
Quando si svegliò, prima ancora di aprire gli occhi, il professore si accorse di avere freddo: effettivamente spirava una certa arietta che increspava di brividi lui e il mare. Si decise a sollevare le palpebre e ciò che vide lo fece tirar su di botto: era notte! Ma quanto aveva dormito? Come aveva potuto non rendersi conto del sopraggiungere della sera e della notte? E soprattutto: che ora era? Annaspò nello zaino alla ricerca di maglia e bermuda: voleva rivestirsi, scosso da brividi com’era, e cercare nella tasca delle braghe l’orologio di suo padre che, da trent’anni, portava al polso. Lo trovò: segnava le 00:30. Questo voleva dire due cose, che la cena alla pensione era saltata e che il cancello della spiaggia libera era ormai inesorabilmente chiuso. Archiviò le due informazioni e si mise a ragionare sul da farsi. Per prima cosa occorreva uscire dalla spiaggia e tornare sulla passeggiata. Si guardò attorno. Il cancello si trovava a metà di un muro piuttosto alto e liscio e, ammettiamolo, il professore non aveva “le physique du rôle” per reinventarsi come scalatore. Si voltò dunque verso il mare: era tranquillo e il suono della risacca era dolce e carezzevole. “Potrei nuotare fino al molo e risalire da lì”, si disse De Albertis. Sì, ma lo zaino? L’orologio? No, non poteva funzionare. Gli venne un’altra idea: “Scavalco gli scogli, scendo dall’altra parte e proseguo a piedi sulla spiaggia fino al molo, dove c’è un punto coi gradini: posso passare di lì per tornare in passeggiata e poi prendere la strada per l’albergo”. Si compiacque con sé stesso per la bella trovata e senza altri indugi iniziò ad arrampicarsi sugli scogli. Aveva ai piedi gli infradito, non esattamente il meglio per quel tipo di esercizio e difatti, vuoi per la sua goffaggine (dopo tutto era un prof di lettere, non di educazione fisica!), vuoi per il leppego (viscidume) che ricopriva gli scogli, a un certo punto scivolò, piegando malamente il piede. Cadde rovinosamente, riuscì ad aggrapparsi alla pietra e a non finire in mare, ma picchiò in più parti del corpo, provando soprattutto un dolore acutissimo alla caviglia, che in pochi minuti si gonfiò paurosamente. Che fare? Niente. Il professore si lasciò cadere seduto sullo scoglio, in modo da lasciare a mollo la sua povera caviglia, nella speranza che il fresco alleviasse il dolore. Stava meditando sul proprio rio destino, quando volse lo sguardo al cielo: che notte incantata! Si rese conto improvvisamente che tutto era illuminato dalla luna, in un chiarore che trasfigurava le ombre e si rifletteva in mille schegge d’argento sul mare. Non vi era neppure un velo di foschia e le stelle pulsavano di luce, come a lasciare messaggi in codice Morse agli ultimi gabbiani ritardatari.
V
“Signore, sta bene?” Qualcuno stava parlando proprio a lui. De Albertis si volse e vide un giovane con una targhetta sulla maglia. Strizzò gli occhi per leggere cosa vi fosse scritto, l’altro se ne accorse e sorridendo prevenne la domanda: “Stia tranquillo, sono un sorvegliante dei bagni Nettuno: l’ho vista mentre stava scalcando lo scoglio e quando è inciampato. Si è fatto male?”
Il professore rispose: “Spesso il male di vivere ho incontrato”
“Prego? Intendevo se ha dolore da qualche parte” disse il sorvegliante con aria perplessa.
“Ed io risposi, prima / per celia, poi perché il dolore è eterno, / ha una voce e non varia. / Questa voce sentiva / gemere in una capra solitaria.”
“Scusi, mi sta dando della capra? Semmai il muflone è lei che si inerpica sulla roccia!”. Il giovanotto cominciava a spazientirsi, ma era d’animo gentile e allora aggiunse: “Vuole che chiami un’ambulanza?”
“Se la vita è sventura, / perché da noi si dura?”
“Ma senta un po’, non è che ha sbattuto la testa?” Il giovanotto cominciava ad allarmarsi.
“Dolce e chiara è la notte e senza vento”, continuava imperterrito il professore, lo sguardo perso nel cielo notturno, “Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai, / silenziosa luna?”
“Ascolti, si attacchi al mio braccio e proviamo a scendere da qui”
Il professore scosse il capo e rispose “Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale…”
“Ma che dice! Non ci siamo mai incontrati prima d’ora!”
“Scenderemo nel gorgo muti.”
“Ma no, stia tranquillo, la reggo io!”, poi vedendo che l’infortunato pareva irremovibile, il sorvegliante provò a chiedergli come si fosse cacciato in quel pasticcio.
“Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera.”
Qui il giovanotto ebbe un’intuizione: “Si è addormentato al sole e si è risvegliato di notte, chiuso sulla spiaggia libera? È così?”
“Non mi sovviene che d’un infinito / silenzio, dove un palpitare solo, / debole, oh tanto debole, si udiva.”
“Guardi, io mi arrendo: vado a chiamare un’ambulanza e la faccio portare al Pronto Soccorso. Vuole che avvisi qualche suo familiare?”
“Non d’amici o di parenti / là m’invita il cuore e il volto: / chi m’arrise a i dí ridenti / ora è savio od è sepolto.”
“Va bene, come vuole, non si muova”
Il professor De Albertis si ritrovò così da solo a guardare l’orizzonte marino “…Così tra questa / immensità s’annega il pensier mio: / e il naufragar m’è dolce in questo mare.”. Gli girava la testa, ora. Si sentiva fluttuare, come sospeso tra il mare e il cielo. L’ultima cosa che vide furono le stelle cadenti che attraversavano, come scie di luce, la volta celeste e il suo sguardo: “E tu, Cielo, dall’alto dei mondi / sereni, infinito, immortale, / oh! d’un pianto di stelle lo inondi / quest’atomo opaco del Male!”, quindi svenne.
VI
Si risvegliò in ospedale, con la caviglia ingessata e la testa fasciata. Come aveva intuito il suo soccorritore, cadendo aveva battuto il capo, procurandosi una leggera commozione cerebrale, quella che lo aveva fatto rispondere in versi alle domande del sorvegliante. Fu quest’ultimo che, andatolo a trovare il mattino dopo, gli raccontò divertito cosa fosse accaduto la sera precedente, visto che il professore non ricordava più nulla. O meglio, sì, qualcosa ricordava e lo disse al giovane gentile: “E quando miro in cielo arder le stelle; / dico fra me pensando: / a che tante facelle? / Che fa l’aria infinita, e quel profondo / infinito seren? che vuol dir questa / solitudine immensa? ed io che sono?”. “E adesso questo che significa, professore?” gli chiese l’altro, convinto che De Albertis stesse di nuovo delirando. Il professore sorrise e rispose: “È Leopardi, sa? Parla di un pastore errante dell’Asia, che quando guarda le stelle brillare in cielo, dice fra sé e sé, riflettendo: a che cosa servono tante luci? A che scopo esiste il cielo infinito, e quel profondo infinito azzurro? Che cosa significa questa immensità nella quale l’uomo è solo? E io che cosa sono?” “Mi scusi, non capisco, cosa c’entra?” “Era per dirle che qualcosa della mia disavventura di ieri sera ricordavo: la mia profonda solitudine nella bellezza di quella notte”. De Albertis tacque e volse lo sguardo verso la vetrata della stanza: entrava la luce del sole, ma negli occhi del professore erano rimaste le stelle. E la sua solitudine.