Riunione pre-partita

La porta in fondo al corridoio era rossa, nell’ angolo in basso il buco lasciato da un calcio.
Ricordava quel calcio.
Inspirò profondamente ed impugnò con decisione la maniglia, un secondo dopo era all’ interno dello spogliatoio, non era una grande stanza, a guardarla ora sembrava impossibile che potessero starci anche venti persone, la forma irregolare la rimpiccioliva ulteriormente.
Sette passi ed era davanti al “suo” posto, cominciò a raccogliere la roba e ad infilarla nella borsa che si era portato, ci mise poco tempo, non lasciava mai molto lì.
Le scarpe, un asciugamano . . . fatto.
Chiuse la cerniera e appoggiò la borsa sulla panchina di ferro che dondolò un poco, come al solito. Si sedette nell’ angolo abituale, le spalle incassate tra le due pareti, gli occhi che, senza fatica, andavano alla lavagna appesa al muro di fronte; all’ improvviso erano tutti lì, Enrico che cincischiava col cerotto, Sergio che si dava gli ultimi colpi di pettine, Mike che avvolgeva e svolgeva continuamente un pezzo di salvapelle su due dita.
Le risate: di nervosismo, non di indifferenza, lui lo sapeva bene, si spostavano tra i vari gruppetti come turisti in visita ad un museo: con discrezione, spuntando ora nell’ angolo, ora nel corridoio, erratiche ed imprevedibili.
La porta si apriva e si richiudeva alle spalle di chi doveva farsi massaggiare o andava a provare qualche tiro; ogni volta un cardine cigolava e spesso bisognava sbatterla perché la maniglia non chiudeva bene.
In tanti anni nessuno che c’ avesse mai messo un po’ d’ olio e ormai non ci si faceva più caso; anzi era il segnale che spegneva i discorsi personali e quelli “da giocatore”, quando il coach stava per entrare.
Già, il coach; eccolo lì in piedi accanto alla lavagna, intento a scrivere le ultime informazioni sugli avversari; lui, più che i compagni, era la somma di tutti gli allenatori avuti in passato, ognuno dei quali gli aveva dato qualcosa e a cui lui, col passare degli anni, aveva dato tutto quello che poteva. Perfino quelli a cui pensava negativamente, se non altro, l’ avevano spinto a dare il meglio, per rabbia o per rivalsa e alla fine, pur se a malincuore, doveva ringraziare anche loro per essere diventato quel che era.
L’ allenatore aveva finito di scrivere, ora si sarebbe girato e avrebbe parlato delle solite cose: concentrazione, aggressività, voglia di farcela, sacrificio; di che altro avrebbe potuto parlare? Sempre gli stessi argomenti, del resto gli unici che continuavano ad avere un valore, nonostante l’ uso e l ‘ abuso che se n’ era fatto.
Gli ultimi secondi prima di entrare in campo, tutti in piedi, in cerchio, le mani unite al centro e, dalla schiera dei vice allenatori, una voce:
– State attenti , là fuori . –
Sorrise, sorrisero: era un vecchio scherzo tra di loro.
Dopo l’ urlo di incitamento uscirono tutti e lui si ritrovò solo con la sua borsa, arrivò alla porta. Cristo! Quel calcio l’ aveva passata da parte a parte!
Se la chiuse dietro la schiena, nessuna esitazione.
Raddrizzò le spalle, alzò gli occhi: era pronto, lo attendeva la partita più difficile della sua carriera. Uscì dal Palasport e continuò a vivere.

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